(La Stampa – M. Feltri) Era difficile realizzare appieno che era successo, se non fosse che un caro amico mi ha spiegato l’etimologia del termine «entusiasmo», en-theos, essere pieni di un dio. Perché martedì sera ero andato pigramente allo stadio per Roma-Barcellona, io tifoso del Toro, in omaggio alla divinità del calcio, Leo Messi. La divinità del calcio aveva presto chinato il capo alla sorte omerica. Eppure mai si è avuta la sensazione di essere implicati in un evento terreno: dentro una folla di sessantamila persone, un’onda elettrica, collettiva, crescente, lenta e implacabile ci ha trasportati in un’altra dimensione. Chi non c’era farà fatica a comprenderne la portata. Essere atomi di una massa vibrante e poi tambureggiante di sessantamila persone, tutte ardenti del medesimo fuoco, tutte dirette al medesimo impossibile approdo, e concentrate sulla stessa smisurata realtà, è stato meravigliosamente scioccante. Il resto del mondo non c’era più. C’era l’eccitazione brutale dell’epica, il volto eroico di De Rossi, quello trasfigurato di Manolas, c’era una magia mistica che ci ha costretti ad abbracciarci fra sconosciuti, e poi a riversarci nelle strade a ballare la nostra catarsi. Ogni cosa era andata molto oltre l’emotività di una partita. Sa ben poco dell’animo umano chi non capisce che il calcio è vita, è poesia, è teatro, e sale fino alla tensione religiosa. E cioè sale a un punto di bellezza e conduce a un punto di entusiasmo che è quello di essere pieni di un dio. E per una lunga incredibile notte, eravamo tutti ai suoi piedi.



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