Il prezzo non è giusto. E la trattativa più seguita nel mondo del calcio alla fine si è arenata. Ieri si è registrata una battuta d’arresto decisiva per la cessione della Roma al magnate texano Dan Friedkin. Ora resta da capire se il no pronunciato dall’attuale presidente giallorosso James Pallotta al suo connazionale sia stato detto in chiave tattica (ovvero per cercare di alzare l’offerta) oppure sia stato un pronunciamento definitivo.
L’offerta di Friedkin valuta il totale della Roma a un enterprise value di circa 580 milioni. Ma questo perché Friedkin, una volta acquistata la società, si sarebbe impegnato nel versare nelle casse giallorosse circa 85-90 milioni come aumento di capitale riservato. Ciò significa che la valutazione fatta da Friedkin a Pallotta prima di questa futura immissione di capitale (una valutazione pre money nel gergo della finanza) si aggirava sui 490 milioni. Di questi però circa 300 milioni sono rappresentati da debito, mentre 190 milioni è stato il valore assegnato agli asset della società. Di questi circa 20 milioni sono il valore assegnato alle società satellite che hanno in portafoglio, per esempio gli immobili di Trigoria oppure quello creato ad hoc per la questione stadio. Mentre i restanti 170 milioni sono il valore assegnato alla Roma in quanto tale. Quindi Pallotta e i suoi soci, che detengono una quota di controllo della Roma, di circa l’88%, avrebbero avuto in pagamento circa 177 milioni da una eventuale cessione. E siccome in questi quasi otto anni da numero uno giallorosso Pallotta ha investito circa 260-270 milioni, l’operazione avrebbe significato una perdita di circa 100 milioni. Sta forse qui il motivo che ha spinto il finanziere di Boston a dire no.
(Milano Finanza)
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