Rassegna stampa
Totti, l’eterno ritorno di un amore Capitale
Vanno in giro a dire che è stata un’allucinazione collettiva. E, se non stai attento, un po’ finisci per crederci. Ma Totti chi? Quello che nella vita ha vinto uno scudetto e a momenti ci faceva perdere un Mondiale? Non ti viene voglia di andare a controllare, e invece dovresti, scrive il Corriere dello Sport.
Se guardi i filmati di venticinque anni di campo (sono sei sindaci e tre papi, ricordò il Corriere dello Sport-Stadio il giorno infame del ritiro, dell’ultimo calcio al pallone verso il pubblico), capisci. Vedi i colpi di tacco, chiaro. I gol, quelli che avrebbero affondato una portaerei e quelli che passavano nella cruna dell’ago. Evidente.
Vedi i posizionamenti, i furori, gli assist che sono 136 e se fa impressione il numero non parliamo della qualità. Vedi i singoli tocchi in mezzo al campo, traiettorie da particella elementare e spin frazionario: forse il miglior passatore mai nato in Italia. Il migliore in molte cose, per la verità. E se hai pazienza ti accorgi pure che, tediosissimo santino del rigore contro l’Australia a parte, nella finale del 2006 contro la Francia una volta uscito lui non abbiamo più visto palla fino alla fine dei supplementari.
Lasciamo stare. Francesco Totti non è mai stato un’allucinazione collettiva. È esistito, ha distribuito bellezza – non diciamo grazia e miracoli, non esageriamo – e poi al momento giusto ha fatto finta di andarsene. O forse non era il momento giusto, lui almeno non lo sentiva tale. Suona strano che adesso lo riproponiamo sul palcoscenico mediatico con la scusa di un litigio in famiglia o anche di una separazione dalla moglie Ilary Blasi che la coppia peraltro si è fatta cura di smentire. Non importa poi molto. Non è che non se ne debba parlare: è che tutto considerato la storia non suscita più di una sommaria curiosità. A Roma meno che altrove. Tra i romanisti a un livello da riserva carburante.
Perché Totti a Roma è altro. Non se n’è mai andato. Neppure quando bofonchiò la sua insoddisfazione per un ruolo societario che sentiva insoddisfacente o peggio inutile. Quando disse: con questa proprietà non mi vedrete più. La proprietà era Pallotta, naturalmente, solo al comando con partner dai volti sconosciuti e dai nomi dimenticati. In realtà, cinque mesi dopo Totti era allo stadio. Per portarci il figlio, certo. Ma pure perché sa che i gesti simbolici funzionano a piccole dosi. Ha aspettato altri due anni per tornarci, a Friedkin insediati. Adesso non lo smuovi di là e qualcosa significa.
Significa che è sempre stato tutto vero. Tra lui e la Roma – ma diciamo pure tra lui e Roma perché per quanto ci sforziamo di vestirci diversamente siamo all’incirca tutti uguali – c’è stato quello che sappiamo e anche di più. Che ben presto Totti torni al club in cui è nato e vissuto, magari a fare qualcosa che gli piace, pare uno di quei fatti su cui nessun bookmaker professionista avrebbe voglia di accettare una puntata.
Il problema per Totti non è mai stato giocare bene o male al calcio, è stato affascinare la città senza esserne prosciugato (osservazione di cui siamo debitori a Vito Scala, che attraverso quel percorso a ostacoli lo ha a lungo accompagnato). Merito suo e anche degli altri. Lo hanno amato tanto, romanisti e pure coloro che romanisti non sono, da lasciarlo in pace.
È stato un rapporto alla pari. Patti chiari, amicizia lunga e forse immortale. Emblema rotondo, quel pallone scagliato in mezzo a sessantamila persone, non tutte con gli occhi asciutti, il 28 maggio 2017. Il giorno dopo Justin Trudeau, primo ministro canadese in visita, aveva addosso la maglia giallorossa numero dieci e camminava sul terreno dell’Olimpico chiedendo a tutti se si fosse verificata proprio lì quella scena incredibile a cui aveva assistito guardando la Tv. Capì appena un pezzo della verità, probabilmente. Veniva da lontano.
Totti, quello autentico, invece era ed è tuttora qualcosa di immanente. Da toccare con le dita. Che ti prendeva persino a male parole se riteneva di essere stato importunato, e successivamente si scusava, però con l’aria di borbottare: e dai, su. Un volto tra la folla, ma riconoscibile. Noi e lui contro tutti, e perché mai non dovrebbe essere di nuovo così? Fosse stato possibile vederli insieme, Mourinho a urlare e Totti a giocare, sarebbe stata l’apoteosi; purtroppo viviamo in un universo imperfetto.
Un’alchimia del genere tra idolo e pubblico, tra contenuto e contenitore probabilmente è esistita solo un’altra volta nella storia calcistica italiana, a Napoli con Maradona. Tuttavia Diego era più messianico: speranza, presenza, memoria, attesa di un aleatorio ritorno. Totti è rimasto dov’era, preferendo essere primo a Roma che triumviro altrove.
Testardo nella sua incapacità di pentirsene, tra l’altro. Ma è per questo che ancora oggi, quando il gioco s’impantana, quando il trequartista lascia scappare il pallone, quando Mourinho si confonde con i cambi, i tifosi cedono alla tentazione di guardare Totti in tribuna. Come se potesse ancora intervenire con un lampo tecnico. O come se bastasse la sua firma su un contratto da dirigente per spaventare i destini avversi.
Le 785 partite e i 307 gol sono un catalizzatore della reazione alchemica, ma non basterebbero a provocarla. Alla base della miscela c’è un sentimento d’identità comune che neppure l’austero De Rossi è riuscito a suscitare. Francesco è unico e per questo la signora Blasi perdonerà se oggi non si parla di lei. Bensì dell’eterno ritorno di Totti, identico a sé stesso.
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