24 aprile 1991. Roma-Broendby. Formazione giallorossa: Cervone, Pellegrini, Nela, Berthold, Aldair, Comi, Desideri, Di Mauro, Voeller, Giannini, Rizzitelli.

La ricordo a memoria come ‘A Zacinto’ di Foscolo. Come ‘L’Infinito’ di Leopardi. Come una filastrocca imparata da bambino che, ogni tanto, ti ritorna in testa. Perchè, però, prendere proprio quella partita lì? Perchè è una delle prime partite “storiche” che io ricordi. Ma soprattutto ricordo la gioia che mi ha regalato Rudi Voeller all’87’ segnando il gol del 2-1 e permettendoci di andare a giocarci la finale di Coppa Uefa.

Seguitemi nel ragionamento. La Roma in oltre 90 anni di storia ha vinto 3 scudetti, 9 Coppe Italia, 2 Supercoppe Italiane. Stop. Fine. Non ha vinto nulla in confronto a Juventus, Milan e Inter. Eppure io mi ricordo proprio Roma-Broendby del 1991. Ero in camera da letto con mio padre a vedere quella partita. Al gol del ‘Tedesco Volante’ si alzò in piedi sul materasso, lo buttò giù per terra, e sopra la rete del letto iniziò a gridare proprio così: “Rete, rete, rete, rete, rete”. All’infinito. In loop.

C’era un senso di appartenenza come poche volte nella mia vita ho visto in una squadra di calcio. Anche lì c’era la maledizione dei pali: quanti ne ha presi in quella stagione Rizzitelli? Non me li ricordo più, talmente sono tanti. L’appartenenza, appunto. Cosa che ora non c’è più. Ora gli amici di Mauretto (mio interlocutore immaginario) ci vengono a dire: “Non affezionatevi ai giocatori. Non è vero che solo la Roma vende. Tutti vendono!”. E s’incazzano pure! Ma io ricordo quella squadra che perse la finale con l’Inter, in uno stadio Olimpico strepitoso da 90.000 cuori (altro che i 30.000 di oggi…) che urlava e sbraitava “Se la coppa non la vinciamo, ce la andremo a prendere sul campo”. Brividi.

Oggi il brutto è che non riusciamo nemmeno a goderci le vittorie. Ha ragione chi dice questo. Ha perfettamente ragione. Ma perchè? Semplice: la proprietà americana sostiene che per poter vincere bisogna vendere. Un controsenso, ma andiamo avanti. Quindi in due anni via Rudiger, Salah, Alisson, Nainggolan, Strootman, Salah e via discorrendo. Faccio quasi fatica a ricordarmi un gol di Salah, vi giuro. Troppo poco il tempo che ha passato nella capitale. Non c’è nemmeno l’opportunità di affezionarsi ai giocatori che subito vengono venduti. Ma cosa ha portato questa politica? Solo ad una semifinale di Champions. Che non è un trofeo. Ma che è stata vanificata vendendo Alisson. Al Liverpool. Nemico storico della Roma. Ah, scusate: per Mister Pallotta la sfida con il Liverpool è il derby di Boston. Per me è la partita della sofferenza estrema. E si sa, è nelle sofferenze che scatta qualcosa: infatti il 30 maggio 1984 divento romanista.

Un club che non ha vinto nulla, quindi una tifoseria che non ha gioito se non in casi eccezionali, si deve pur affezionarsi a qualcosa. O no? A Voeller, a Giannini, a Rizzitelli, a Totti che a Tudor fa “Quattro, zitti e a casa”, a Cassano che spacca la bandierina del calcio d’angolo. Al derby vinto 3-0 con Mazzone sotto la Curva Sud, quando tutti davano per favorita la Lazio di Zeman e spacciati i giallorossi del trasteverino. Queste, purtroppo, sono le uniche gioie.

Questa proprietà cosa ha portato? Solo freddezza. Calcolatrici, Excel, entrate e uscite. Plusvalenze. Che parolone. Sembra quasi un giocatore forte il Sig. Plusvalenza. I tifosi non vanno più allo stadio (se non i gruppi organizzati e i Roma Club che hanno i biglietti omaggio). Addirittura per riempire lo stadio contro il Frosinone si è dovuto ricorrere all’amico Sky: compri un biglietto di tribuna per averne due. Una volta non ce n’era bisogno: lo stadio si riempiva anche per Roma-Foggia 1-1, gol di Totti e Kolyvanov. E c’era chi chiedeva i biglietti a qualche amico giornalista del Corriere dello Sport…

Non bisogna affezionarsi più ai giocatori? Benissimo. Portateci le vittorie. Nemmeno quelle? E allora fatemi ricordare ancora una volta quell’immagine di Rudi Voeller che gonfia la rete contro il Broendby. E fatemi gioire per quello. Guarderò al passato, ma almeno c’era senso di appartenenza. Cosa che la Roma attuale ha smarrito.

 



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