James Pallotta

Senza programmazione non si vince. La Roma, probabilmente, lo ha fatto solo negli anni di Garcia, l’allenatore che è rimasto più a lungo in giallorosso (due anni e mezzo). Gli altri, da Luis Enrique a Zeman, passando per Andreazzoli, Spalletti e in ultimo Di Francesco, sono durati sulla panchina più scottante d’Italia davvero pochissimo. Programmazione, dicevamo. Quella che non ha la società. Perchè possiamo stare qui a discutere di 4-2-3-1 o 4-3-3, di difesa a 3 o a 5, di Nainggolan 20 metri più avanti o più indietro, ma “programmare” (o usando una parola inflazionata, avere un “progetto”) è un termine che dalle parti di Trigoria non sanno nemmeno cosa sia.

Come si fa a programmare se un allenatore non può rimanere per almeno 3 anni come fa Sarri nel Napoli? Come si fa a programmare se i giocatori migliori, ogni anno, ogni estate (e da quest’anno ogni inverno) vengono ceduti per sistemare un bilancio perennemente in rosso? Come si fa a programmare se si punta su giocatori che sono delle scommesse e, come tali, possono esplodere oppure rimanere eterne promesse? Le maggiori colpe, se nella casella trofei vige quello zero negli ultimi 10 anni, sono della proprietà: assente, non vicina alla squadra, lontana anni luce dalla cultura calcistica italiana e, in generale, da quella europea.

Certo, i giocatori hanno la loro fetta di colpa perchè non rendono in campo per quanto pagati, ma ci siamo chiesti il motivo? Come fa, ad esempio, Nainggolan a giocare con la serenità necessaria se a gennaio era ad un passo dal volare in Cina pur volendo rimanere alla Roma? Come fa Dzeko, già fragile di suo, a rendere al meglio se a gennaio era praticamente ad un passo dal Chelsea? Come fa Kolarov a giocare 24 partite su 26 se non ha un sostituto (Jonathan Silva è appena tornato ad allenarsi col gruppo) e se il suo omologo, ovvero Emerson Palmieri, è stato ceduto a gennaio? Come fa Florenzi, reduce da un doppio grave infortunio, a giocare quasi sempre se la sua alternativa è un inaffidabile Bruno Peres? Per non parlare di Schick, fuori ruolo, e di Defrel, con all’attivo un misero gol su rigore contro il Benevento.

Anche Di Francesco ha le sue responsabilità. Il fatto di aver insistito sul 4-3-3 anche quando le cose non brillavano (per intenderci tra dicembre e gennaio), oppure gli equivoci tattici di Schick (non è un esterno e non può sorreggere da solo l’attacco) fino ad arrivare a Strootman regista, non proprio una scelta lungimirante. E’ anche vero che se De Rossi non può giocare tre partite in 6 giorni e che Gonalons è più in infermeria che ad allenarsi col gruppo, il suo lavoro diventa sempre più difficile. Ecco perchè, se le colpe vanno divise sempre in tre, la percentuale maggiore ce l’hanno proprietà e dirigenza. Il presidente Pallotta, invece di prendersela con le radio (che poi non sono 9 ma molto meno), definire i tifosi della Roma razzisti per cori mai avvenuti contro Rudiger a Londra, dopo averli definiti “fucking idiots” qualche anno fa, e pensare solamente allo stadio, il vero business immobiliare-calcistico offertogli su un piatto d’argento ad Unicredit, pensi realmente a come migliorare le cose. Non basta un Whatsapp al Corriere dello Sport e a Il Messaggero dove si definisce “imbufalito” per cambiare le cose. La voce del padrone si deve sentire dentro lo spogliatoio, non tramite conference-call o peggio ancora su Skype.



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