Gustavo Javier Bartelt, ex giocatore argentino della Roma, ha raccontato la propria esperienza capitolina ai microfoni di Gianlucadimarzio.com. Queste le sue dichiarazioni:
“Sono tifoso della Roma, ho anche tatuato lo stemma. Totti? Un grande amico. Avevo segnato 15 gol in 17 partite e mi voleva mezza Europa. A Roma Zeman cercava un 9 che segnasse tanti gol e forse per questo mi comprarono. Ma fin da subito capii che non avevo la fiducia della società. Non mi prendevano in considerazione. Al tempo ero molto giovane, non seppi mai bene come andò il mio trasferimento. Non sapevo nemmeno che tipo di contratto avessi! Ora che sono più maturo dico che avrei dovuto approfondire tutti questi aspetti. Il presidente il primo giorno che mi vide mi disse subito: “Leva i tatuaggi e tagliati i capelli sennò non giochi. Alla prima partita con la Roma, in Coppa Italia, segnai subito un gol. La Gazzetta mi premiò come migliore in campo. Un buon inizio no? Da lì non giocai più. E non ho mai capito il perché. Ebbi molte difficoltà nel primo periodo. Ero argentino, non conoscevo la lingua e non fui aiutato ad inserirmi. Giocavo poco e mai dall’inizio. Non mi venne mai data una possibilità. E soprattutto non capivo tatticamente quello che mi chiedeva Zeman, un allenatore particolare. Per fare un esempio quando a gennaio arrivo Fabio Junior, lui ci mise cinque partite per segnare il primo gol, ma nonostante questo gli venne dato il tempo di giocare per ambientarsi. In più aveva sempre accanto un traduttore, cosa che a me non venne mai concessa. Prima di partire per il ritiro austriaco la società mi disse: “Non venire, a Capello non piace il tuo modo di giocare”. Ma io non capivo il motivo, l’allenatore non mi aveva mai visto! Dopo due giorni arrivai in ritiro, spinto dal mio procuratore. Mi allenavo con la squadra, ma ero solo in attesa di un’altra sistemazione. Alla prima amichevole mi misi in panchina, convinto che a Capello non interessassi. Vedendomi mi disse: “Che fai seduto da solo lì?”. “Niente mister, se lei non mi vuole..”. E lui subito: “Vieni qui, mettiti sulla destra”. Risultato? Segnai due gol. Ma anche quell’anno solo panchina. Quando ci fu la questione passaporti il presidente non mi volle aiutare, come fece con altri giocatori. Io volevo parlare con lui per risolvere la situazione, ma lui non voleva parlare con me. La Roma non mi lasciò andare via, non mi faceva allenare e neppure mi pagò i due anni di contratto. Né la Federcalcio fece mai nulla affinché la Roma risolvesse la situazione. Nessuno mi difese, nemmeno il mio avvocato. Io non seppi mai cosa accadde dietro le quinte, perché non era mia intenzione entrare in conflitto con nessuno e cercai sempre la soluzione del dialogo. L’unica cosa che mi fu concessa era parlare con il mio avvocato. Che ogni mese mi prospettava una soluzione prossima, cosa che puntualmente non avveniva. Per la società sembrava tutto normale. Addirittura i miei compagni andarono da Sensi per intercedere, volevano che io giocassi. Ma il presidente non li volle nemmeno ascoltare. Sono stato discriminato dalla Roma, credo proprio fosse una cosa personale. Ancora oggi in me rimane il grande dispiacere di non aver fatto bene a Roma, per colpa di una situazione che, essendo al tempo ventitreenne, non compresi mai appieno. Adesso vivo a Buenos Aires. Ho finito di giocare tre anni fa e ho una società di costruzioni in Argentina. Sono stato allenatore dell’All Boys e ora sono in trattative per diventare l’allenatore della Primavera del Lanús. Ma Roma mi è rimasta nel cuore, ho ancora tanti amici. Mi sento ancora con Montella, Candela, Aldair, Di Biagio. Vincenzo è anche venuto a casa mia due anni fa, quando allenava la Fiorentina». Ma Gustavo da sempre ha avuto uno sponsor speciale, Totti: «Francesco è un amico. Mi aiutò tantissimo allora, anche la sua famiglia, fin dall’inizio. Gli ho fatto anche gli auguri per il suo compleanno tramite un amico in comune, perché chiamarlo al cellulare era un casino quel giorno. Sono davvero contento che ancora giochi. Lui è il sole e l’anima della Roma. Può giocare anche a 40 anni perché ha delle capacità e una visione del gioco che gli altri non hanno e che gli permette di rimanere ad alti livelli. Deve poter giocare fin quando lui lo vuole. Ho anche tatuato il simbolo sulla gamba. Roma per me è stata un’esperienza forte, continuo a seguirla ancora oggi. Seguo sempre le sue vicende e sarò sempre un suo tifoso”.
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