Daniele De Rossi, centrocampista della Roma

Daniele De Rossi, centrocampista della Roma, ha rilasciato un’intervista alla Rivista 11. Queste le sue dichiarazioni:

“Sto bene. Sono felice. E’ un annetto che ho ricominciato a sentirmi un calciatore fino in fondo. Un calciatore di livello alto. Vero”

Che cosa è successo?
Prima ero sceso di prestazioni, era diminuita la convinzione che il mio fisico potesse reggere nel calcio italiano ed europeo a certi livelli. Poi, un po’ la mia caparbietà, molto l’Europeo e il pre-Europeo con Conte e tutto il lavoro che ha fatto Spalletti e questa grande squadra che ha creato, hanno fatto sì che tutto fosse più facile. Poi resta che non sono un giocatore alla Messi…

In che senso?
Non sono uno di quei calciatori che se sono in forma portano risultati da soli, ma che se non lo sono possono comunque fare la differenza. Io devo stare bene fisicamente per fare il mio calcio, ma ho anche bisogno di una squadra che mi sostenga. Sono un ingranaggio. Ed è da un po’ che s’è incastrato tutto: arriva Conte, ti motiva in certi modi quando le cose non andavano bene, l’Europeo va in una certa maniera, anche se poi finisce male, ma è stato comunque un campanello: a certi livelli ci puoi ancora giocare e anche bene. Poi la Roma ricomincia e la stagione, sia dal punto personale sia dal punto di vista di squadra, va bene, e quindi tutto mi ha fatto orientare verso il fatto di essere ancora un ottimo calciatore

Hai parlato di ultima fase della tua carriera…
Perché arrivi a un certo punto e pensi a quando smetterai. Ci sono quelli che vogliono smettere presto, quelli che vogliono smettere a 40 anni: io penso di voler fare una via di mezzo. Voglio chiudere con grandissima dignità. Se dovessi vedere che non c’è più una condizione accettabile e che non sto più al ritmo dei miei compagni smetto, ma non come autoflagellazione, autopunizione, semplicemente come una presa d’atto delle cose. Ma oggi mi sento forte. Mi sento ancora un calciatore vero

Rispetto alla prima fase della carriera ci sono meno gol. E’ una cosa che manca?
No. In campionato ho segnato nella scorsa stagione contro l’Empoli e una doppietta in Champions a Leverkusen. Credo che i motivi siano diversi e tra questi c’è che gioco più indietro di una ventina di metri rispetto alla stagione in cui ho segnato di più. Era l’anno che abbiamo sfiorato lo scudetto con Ranieri: tra campionato, Coppa Uefa, Coppa Italia ne ho fatto una dozzina. Ma il gol mi manca solo se mi metto a guardare le statistiche, perché quando ho iniziato erano sempre 6, 6, 7, 6, 7…

Nelle immagini dei gol del passato c’era sempre un’esultanza più rabbiosa rispetto a oggi. E’ un caso o c’è una ragione?
Prendi l’esultanza dell’anno scorso a Leverkusen sul secondo gol, quello del pareggio dopo essere andati sotto due a zero in cinque minuti. Quella ha qualcosa del “fratello” giovane. Dipende anche da quanti gol fai e da che tipo di gol sono. Ultimamente non sono stati di quelli che fanno strappare la maglietta tipo Hulk… Comunque prima ero un po’ più vulcanico in tutto quello che portavo sul campo, forse a volte anche un po’ fuori. Se fossi lo stesso di quando avevo 25-26 anni mi preoccuperei, anche se ero un ottimo giocatore, diverso da adesso. Non so quanto migliore o peggiore, perché ero proprio un giocatore diverso. Più esplosivo. Ma sicuramente ora molto più lucido e con molta più qualità

Come si spiega?
Ho più letture, oggi. E’ l’esperienza. Prima ero quello che sei a 23-24 anni, in più aggiungi tutta questa carica che ti dà questo lavoro, questa città e questo amore che ho io per questa squadra. Sicuramente a volte non l’ho gestita, ma non è neanche facile gestirla tutta questa emozione insieme. Quando segni poi esplode tutto

Nei video di qualche partita si vede un parastinco con il logo dell’Ostiamare. C’è ancora?
C’è ancora, anche se ho un pochino mollato quel discorso. E’ un vezzo un po’ più giovanile. Con gli anni ti passa la mania del look. Credo che certe cose facciano parte soprattutto di una parte della vita e della carriera. E’ normale che i giovani stiano attenti a certe cose, mentre chi è più maturo no. Non sono d’accordo con i giocatori a fine carriera che si sentono lontani dal calcio di oggi. Ogni tanto sento dire che i giovani pensano solo al calzino in pendant con lo scarpino o al nome sopra la scarpa e non pensano al magazziniere. Ma che si pretende? Quando abbiamo cominciato noi era diverso. Sono passati vent’anni: è cambiato tutto. Un ragazzo di vent’anni ora arriva in prima squadra e ha più follower di Messi. E’ normale che si senta più sotto attenzione. Quando ero giovane io, quelli di 35 anni mi dicevano: “Non è più come quando ero giovane io”. E’ sempre stato così, sarà sempre così

Non è cambiato il calcio?
È il mondo che è cambiato, non solo il calcio. Che fai, te la prendi con i giovani calciatori? Ma lasciali stare, che ci vuoi fare? A volte danno fastidio pure a me quando li vedo. Quando fanno la diretta Instagram dallo spogliatoio prima della partita io gli darei una mazzata da baseball sulla bocca. Ma hanno 18 anni e tra venti anche loro si ritroveranno quello di 18 anni che farà un’altra cosa per cui diranno: “Ma dai, quando eravamo giovani noi c’era De Rossi che ci faceva a pezzi se avessimo fatto una cosa così”. A volte noi calciatori facciamo un po’ di populismo, di chiacchiere. Frasi come: “Il nostro non è un lavoro, i veri eroi sono quelli che si alzano alle 5 di mattina per andare a lavorare”… Sì è vero, vabbè, ma basta dirlo

Sempre convinto che ci sia un po’ di pregiudizio nel confronti del calciatore troppo ricco e che ha conquistato la ricchezza troppo presto?
Non posso cambiare giudizio. Tu sei pagato da un privato che facendo giocare te e i tuoi compagni ha determinati incassi. E’ un investimento come un altro, quasi. Guadagniamo troppo? Sì, ma dipende da come la guardi. Magari nasci in America, giochi a baseball e guadagni ancora di più. Però di nuovo: guadagniamo troppo? Sì. Guadagniamo troppo per l’importanza di quello che facciamo? sì. E’ stato semplice guadagnare così tanto? No

Com’era Daniele bambino?
Felice. Non mi è mai mancato niente, non abbiamo mai navigato nell’oro: mio padre giocava a calcio in serie C, mia madre era la segretaria del presidente dell’Eni. Il primo choc l’ho avuto a sette anni e mezzo quando è arrivata mia sorella e l’altro piccolo choc era spostarsi per seguire mio padre: non mi è mai piaciuto tantissimo, non ho le cicatrici dei miei ripetuti spostamenti, però dovevi andare in altri posti, eri sempre quello che aveva il dialetto diverso. Mi ricordo un primo giorno a scuola, a Rimini. Papà giocava nel San Marino, ma noi vivevamo a Rimini. Andiamo a parlare con la scuola e ci dicono che i bambini in classe devono indossare un grembiulino rosso o blu. Mia madre me ne compra uno rosso e uno blu. Il primo giorno dice: “Oggi come ci vestiamo? Intoniamo il grembiulino a come sei vestito” e mi mette il grembiulino rosso. Sono andato a scuola, avevo i capelli biondi lunghi. Entro e scopro che il grembiulino rosso ce l’avevano le femmine. Ero piccolo, avevo 6 anni, ma me lo ricordo come se fosse adesso, mi hanno preso in giro pure i sassi. Questo è stato lo choc, dover cambiare, farsi accettare. Però oggi sono cose che ricordo con affetto. In realtà quando penso alla mia infanzia penso soprattutto alla felicità. E al fatto che ho iniziato presto a giocare a pallone

Che cos’è Ostia per De Rossi?
Ostia è il posto dove voglio andare se mi devo sentire sicuro, mi sento tanto bene anche qui a Roma, in centro, io ci vivo tranquillamente, tanti si chiedono: come fa a vivere in centro? E me lo sono chiesto anch’io. Ma a me non mi si fila nessuno: qui è pieno di pellegrini e i romani che vivono qui ormai mi conoscono. Però Ostia per me è ancor di più, è proprio la culla. E’ un posto mio. Sento che mi protegge. Ci sono tornato in un momento storico importante, dopo la separazione. Sono tornato a Ostia e subito mi sono sentito a casa

Quando è arrivato il pensiero di poter fare il calciatore da grande?
Da ragazzino ero ancora un po’ confuso, mi piacevano tanto la pallavolo e il basket. Ero sicuro che avrei fatto lo sportivo, ma dovevo orientarmi. Farò il calciatore come lavoro, potrò permettermi di campare col calcio, l’ho pensato anni e anni dopo

Nelle giovanili della Roma o già da prima?
Non ero un ragazzino che credeva che davvero potesse succedere tutto questo a me. Ci sperato, ho lavorato. Ho fatto sempre quello che mi piaceva, mi sono sempre divertito. Mi viene da dire anche sacrificato, ma il sacrificio cos’è? Uscire da scuola, al volo mangiare un panino con la bresaola e andare agli allenamenti e poi tornare a casa a fare i compiti e distrutto addormentarsi? No, dai. E non lo facevo perché avevo la prospettiva o la presunzione di diventare voler diventare un calciatore. Lo facevo perché mi piaceva proprio. I primi anni ho anche giocato poco nella Roma, non ero uno dei titolari, non ero una delle stelle individuabili come il futuro campione, il futuro capitano della Roma. Non ero per niente così. Ero disposto anche a cambiare, andare via dalla Roma: se gioco poco e non mi diverto che ci sto a fare qui? Non ero nato, cresciuto per questo. Ho letto Open, il libro di Agassi. Il padre gli ha fatto capire subito che cosa doveva fare: avrebbe dovuto diventare Andre Agassi il tennista, Andre Agassi il campione. E lo è diventato

E papà che cosa diceva?
A casa mia si è sempre vissuto tutto con grande serenità, forse perché mio padre il calciatore l’ha fatto e sa che il volere dei padri non ti porta ad azzeccare i passaggi quando giochi, non ti porta a giocare meglio degli altri

Se dico Arezzo-Roma, Allievi nazionali, dove va la mente?
Ricordo che mi scaldavo con quello che ora è uno dei miei migliori amici, Emanuele Mancini. Perdevamo 1-0, chiamano, fischiano: “Entra”. Emanuele pensava che dicessero a lui. Invece dicevano a me. Entro: faccio uno o due assist, cambio la partita, vinciamo 2-1. Ma la cosa che più ricordo è che in quella partita viene espulso il nostro capitano in maniera ingiusta. Difendiamo il 2-1 fin quasi all’ultimo minuto, quando un difensore centrale sbaglia un passaggio, io rincorro l’avversario lanciato a rete, lo strattono, lo stendo, l’arbitro fischia fallo ma non mi butta fuori perché palesemente si è sbagliato prima. Ecco: io entro, cambio la partita, non vengo squalificato mentre il mio compagno sì e io dalla partita dopo prendo il suo posto a centrocampo. Da allora quell’allenatore non mi ha fatto più uscire. Era Mauro Bencivenga. Gli devo molto, gli devo l’aver capito prima di tutti quale fosse il mio ruolo. Anche prima di me

Qual era stato il ruolo fino a quel momento?
Mah, non si è mai capito. La mezza sega, credo. Trequartista o largo a sinistra. Non ero velocissimo, ma avevo il piede, mettevo la palla, l’assist, entravo e poi si intravedeva quello che si vede adesso: il tempo di inserimento, che ho avuto per tutta la carriera. Mi inserivo bene, facevo gol

Trenta metri in meno e nasce De Rossi…
In quel ruolo davanti alla difesa ho iniziato a giocare sempre. Prima ero un ibrido. Un giorno Ugolotti, un allenatore col quale giocavo poco, stava facendo un allenamento e disse: “I difensori vanno lì a fare questo, i centrocampisti vanno con il preparatore atletico, gli attaccanti vengono con me”. Poi si gira, mi guarda e fa: “E tu dirai ‘e adesso io ‘ndo cazzo vado?'”. Non si era capito se ero un difensore, un centrocampista, un attaccante. Mi hanno messo davanti alla difesa e non sono più uscito

Nelle classifiche delle presenze dei calciatori nati nei settori giovanili in Europa e in Italia, la Roma è nelle prime dieci in Europa e prima in Italia…
La Roma ha cercato di crearsi il talento in casa. Forse è per l’attaccamento dei tifosi che da bambini hanno come sogno di giocare nella Roma. E forse c’entra pure che ci sono stati anche dei momenti in cui la Roma non era così forte a livello economico, per cui provare ad allevarsi i giocatori in casa era anche una necessità. Poi è diventato un vanto. E qui c’è il lavoro nel settore giovanile di gente che sa lavorare. Perché Bruno Conti ha fatto benissimo per tanti anni. In più i ragazzi, gli allenatori, gli staff… la stessa Trigoria è una cosa che ti aiuta, oggi è un centro d’eccellenza. E per i ragazzi arrivarci è davvero un sogno

E che cos’è Trigoria?
E’ un luogo per cui provo un affetto incredibile. Pensare che un giorno non sarà più la mia quotidianità mi fa male. Magari lo sarà in altre vesti, non lo so, però se penso che potrei non vedere tutti i giorno che ne so, Roberto Porreca, il magazziniere che vedo da quando ero nel settore giovanile, o i ragazzi del bar che mi hanno fatto la colazione più volte loro che mia nonna, mia mamma e mia moglie messe insieme. Ecco, se penso a queste cose mi viene il magone. E’ il posto che ho frequentato di più nella mia vita. Un’estate sono andato a liberare l’armadietto perché pensavo di andare via. Su quel viale, tra via di Trigoria e via Laurentina, i pianti si sprecavano, nonostante non andassi né in guerra né a fare una cosa che non mi piaceva

Il rinnovo del contratto è un pensiero continuo?
No. E’ una cosa che prima o poi dovrò affrontare con la società. Ma non ci penso. E ho deciso di non parlarne. Ma voglio continuare a giocare ancora un po’

Neanche un dubbio?
Ci può essere un dubbio su cento. Torniamo al discorso di prima. L’altro anno mi sono stirato quattro volte, se mi fossi stirato quattro volte quest’anno, visto che gioco per passione, perché mi diverto e non perché devo arrotondare, l’avrei pure preso in considerazione, anche perché ho dei progetti miei di vita per quando smetterò

Che progetti sono?
Il più semplice è che il primo anno mi piacerebbe fare tanti viaggi, girare il mondo, girarlo con i miei figli. Faccio esempi molto banali, ma viaggiare è la cosa che mi riempie di più…

E’ questo l’unico rammarico di essere rimasto a Roma? Il non aver visto altri posti?
Sì. Non ho vissuto l’atmosfera di un altro Paese sia dentro gli stadi – penso agli stadi inglesi o a quelli spagnoli – sia fuori dagli stadi. Mi sarebbe piaciuto vedere come si vive da un’altra parte. Ho fatto sempre scelte consapevoli, anche se qualcuno le può considerare incoscienti. Invece ero conscio del fatto che erano scelte professionalmente “sbagliate”

In queste scelte hanno pesato altri valori?
Neanche troppo. Questa scelta viene letta e vista come una cosa di grande altruismo, di amore per la maglia, di amore per i tifosi. Ma è una parte della verità. L’altra è che la mia scelta è stata molto egoista, perché io avevo proprio bisogno di giocare con la Roma. Ho il piacere fisico ed emotivo di giocare con questa maglia. Gli anni in cui sono stato lì lì per andare via, quando magari a Natale sapevo che a gennaio avrei potuto lasciare Roma, sono stati molto particolari. Di solito all’ultima partita in casa a Natale, i giocatori pensano che al fischio finale comincia un periodo di vacanza. Invece io in quei momento entravo in campo e avevo gli occhi lucidi di lacrime. Guardarsi intorno e pensare che era l’ultima partita all’Olimpico… Mi è successo e ho capito che senza questa cosa non posso stare. Vivere senza Roma sarebbe stata una cosa che mi avrebbe fatto più male del non aver vissuto un Real Madrid-Barcellona, o di non aver calcato gli stadi inglesi più belli. Almeno io la penso così, però la controprova non la potrai mai avere. Vivo un continuo saliscendi tra la voglia di vedere cose nuove e il bisogno di stare qui. Ma a 33 anni sono arrivato con la serenità sia del non aver vinto tanto sia di non aver girato tanto

Il paradosso è essere campione del mondo e non essere riuscito a vincere con la Roma
E’ paradossale per i tempi. Perché ho vinto a 22 anni. Se vinci a 27 è un’altra cosa, a 22 invece significa iniziare con il botto e avere un certo tipo di aspettative. E’ stato velocissimo: prima l’Europeo con l’Under 21, poi la medaglia di bronzo alle Olimpiadi, poi a 22 anni boom: campione del mondo. Quella è stata forse la fregatura: non aver continuato a vincere. Forse se lo aspettavano tutti. In quei momenti avevo il telefono che scoppiava. Ogni giorno c’era una squadra nuova, ogni giorno c’era qualcuno. Mi dicevano: “Questo allenatore ti sta chiamando e ti vuole parlare, c’è questo presidente che ti fa il contratto in bianco e puoi mettere la cifra e andare quando ti pare”. Io la vivevo come una cosa bellissima, però poi alla fine c’era questo sentimento forte che mi rendeva anche abbastanza conscio del fatto che forse avrei vissuto male il distacco

Si è letto: “De Rossi vuole chiudere la carriera al Boca”. Perché?
Non ho mai detto che vorrei chiudere la carriera al Boca, ho detto che avrei desiderato giocare al Boca Juniors. Magari anche a vent’anni, o a trenta, o a trentacinque. E’ uno dei miei desideri, lo è sempre stato. Mi piacerebbe essere in campo in un Boca-River alla Bombonera. E’ una cosa che potrebbe mancarmi, tanto quanto mi potrebbe mancare giocare una finale di Champions o un Real-Barcellona. E forse le ultime due, se avessi fatto scelte diverse, le avrei potute giocare. Ma il Boca è un’altra cosa: lo stadio mi leva la vita, quando lo vedo. E’ il più bello del mondo. Mi sono appassionato alla Bombonera quando ero piccolo: guardavo i video dei gol, delle esultanze. Incredibile. E poi Maradona (…)

Mai pensato: quanto è complicato stare a Roma per un calciatore? Soprattutto per un calciatore di Roma…
Roma ti offre molte cose belle, ma ti offre anche molti momenti in cui pensi: chi me l’ha fatto fare? Chi ti dice che non c’ha mai pensato, dice una bugia. Una grande bugia, perché Roma quei momenti li offre eccome. E a volte te li sei meritati (…)

La panchina è stata sempre vissuta solo come scelta tecnica?
Sì. Il mister negli anni s’è fatto riconoscere come una persona leale. Ci sono lati del suo carattere con cui un po’ tutta la squadra quell’anno è andata in conflitto. Ma è una squadra che ha lottato per lui fino all’ultimo secondo, anche se molti a Roma dicono il contrario. Abbiamo giocato una partita a Firenze, in Coppa Italia, per cui ogni giornale, ogni radio, ogni tv e pure qualcuno dentro la società, ci aveva fatto capire che se avessimo perso, il mister sarebbe stato mandato via il giorno dopo. Io ero in campo, quel giorno: soffrimmo perché la Fiorentina era forte, ma giocammo 120 minuti combattendo. E ci qualificammo. Se una squadra vuole perdere una partita con tante assenze e con un avversario molto forte, non ci mette tanto (…)

Zeman invece teneva in panchina solo De Rossi
C’era un giocatore che ritengo bravo, che sta facendo la sua buona carriera, Tachtsidis, che piaceva particolarmente a Zeman e lo riteneva più giusto di me per il suo gioco. Ho sempre trovato allenatori che mi hanno fatto giocare titolare, anche in condizioni precarie, uno a cui piacevo meno l’avrei dovuto trovare. E’ statistica. Non credo ci sia altro. Non credo che Zeman sia un disonesto. La sua carriera e la sua storia parlano per lui, ha dimostrato spesso di avere una grande rettitudine, non vedo perché con me l’avrebbe dovuta compromettere. Per me non è stato un periodo facile e credo non lo sia stato neanche per lui

Perché?
Ha dovuto gestire la situazione ambientale. Ogni conferenza gli chiedevano: perché non gioca De Rossi? Perché gli preferisci Tachtsidis? Lui ogni tanto ha fatto qualche uscita provocatoria. Diceva: “Chi se lo compra De Rossi? Dove va? Cho lo vuole? Ha 30 anni, non lo prende nessuno”. Io per un anno sono sempre stato zitto, non ho mai alzato un sopracciglio. Magari speravo che ci fosse un po’ più di cameratismo. Ok, non ti piace come gioco? Io mi alleno, mi impegno. non parlo, ti aiuto con la squadra, ma tu non mi attacchi nelle interviste. Mi rendo conto però che è un casino essere un allenatore. E’ l’unico che è costretto a parlare sempre: prima delle partite, dopo le partite, un paio di volte durante la settimana, ogni può essere che un colpo ti parte (…)

Com’è stato il caso Totti-Spalletti vissuto dall’interno?
Era una situazione molto particolare. La pressione era enorme, come se fosse l’unico argomento possibile. La cosa che ho trovato sbagliata, sia nell’opinione pubblica, sia nella stampa, sia nel tifoso, non è tanto lo schierarsi, quanto il desiderio di schierarsi, la voglia di dire qualcosa a ogni costo. Io non sono mai intervenuto perché è come quando ti chiedono: ha ragione mamma o papà? Io un’opinione ce l’avevo, ce l’ho ancora, ma sarebbe stata solo una voce in più tra le tante, tre le troppe. A chi avrebbe giovato? (…)

Com’è il rapporto con Totti?
Io mi sono permesso in questi 16 anni un lusso che a Roma si sono permessi in pochi: viverlo non solo come un idolo. Stare tutti i giorni con lui ti porta a vivere come una cosa normale l’essere accanto a un calciatore che non è normale- Perché quello che ha fatto non è normale, perché è un fenomeno e lo è stato per 25 anni. Rimane l’infervoramento che ho sempre avuto per il calciatore, ma l’ho sempre trattato come un mio compagno qualunque, come trattavo Tonetto, Cassetti, Vucinic per dire quelli a cui mi sono affezionato particolarmente. Come trattavo Pirlo in nazionale. Non perché il livello del calciatore fosse lo stesso, ma perché quando diventa un amico, il fatto che sia il più forte calciatore della storia della Roma, fra i cinque calciatori più forti della storia del calcio italiano – e secondo me, per certi versi, il più forte di tutti – non tocca la mia percezione di lui. Quindi, quando dovevo proteggerlo da un avversario, lo proteggevo, quando ci dovevo discutere ci ho discusso, quando qualcosa non mi stava bene gliel’ho fatto notare, quando dovevo mostrargli affetto glielo mostravo, e quando dovevo dire che era un coglione gliel’ho detto. Un lusso che a Roma non si permette nessuno. Perché qui, se dici che Totti ha sbagliato ad allacciarsi le scarpe, è lesa maestà

Ma quanto è difficile, se è difficile, essere l’erede di Totti per quello che è lui per Roma e per il fatto che gioca ancora?
E’ facilissimo. Smette, non smette, la fascia da capitano, sono tutti discorsi che a me non interessano. Io credo che si possa essere capitano anche senza indossare la fascia. E, soprattutto, puoi essere un grande capitano anche da vice. Ma, al di là di questo, è stato facilissimo perché non c’è mai stato dualismo. Forse si sarebbe potuto creare se avessimo avuto lo stesso ruolo. Si possono fare paragoni al massimo sul resto, sul modo di stare in campo, sull’atteggiamento, sul carattere. Ma per quello che calcisticamente gli viene riconosciuto in tutto il mondo, Francesco è irraggiungibile. Dal punto di vista del cuore, della gente, lui è unico. E’ amato da tutti perché ha fatto 300 gol. Io non sono amato da tutti perché non sono capace di fare 300 gol. Poi il mio carattere mi porta a dire ogni tanto qualcosa che non pisce, a dire quello che penso e che magari è fuori posto (…)

Montella
Un predestinato. Intelligentissimo, preparato. Come tutte le persone intelligenti è uno che vuole avere ragione. E, per avere ragione, devi essere sempre preparato. Quando mi hanno chiesto un parere su che mister prendere, io ho proposto Montella

Luis Enrique
Per lui ho avuto una vera passione. Ma ha fatto appassionare a un tipo di calcio diverso. Il primo giorno di allenamento ha tirato un pallone in aria, noi gli siamo andati tutti addosso, come i bambini delle scuole calcio, e da lì ha fatto un lavoro enorme, tattico e di impostazione generale. Ha allenato una squadra meno forte di quelle che ha allenato dopo e meno forte anche di altre Roma. Poi ha detto: “Tratterò i calciatori più importanti come quelli meno importanti”. Ed essere stato uno di quei calciatori importanti che ha punito, l’ha solo fatto diventare più interessante ai miei occhi

Garcia
Ha preso una squadra e una città in difficoltà e le ha rimesse in carreggiata. Ha fatto un lavoro mostruoso. Mi spiace che di lui si ricordi solo l’ultimo periodo. All’inizio ci ha fatto giocare veramente bene e ha creato un grande gruppo

Spalletti
E’ stato l’allenatore che mi ha condizionato di più- Quello che ho avuto per più tempo. Mi ha preso che ero giovanissimo. Oggi mi rendo conto che quando lo sento parlare di un giocatore, di una situazione, di un movimento, io ho pensato la stessa cosa un’ora prima. Ho cominciato a vedere il calcio con gli occhi di questo allenatore. Ed è un bel vedere- Al di là di che cosa farò io, al di là che a volte ha un carattere difficile, la Roma dovrebbe fare di tutto per trattenerlo perché sarà più forte (…)

Mai pensato a un futuro da allenatore?
Potrei farlo. Vedo tanti giocatori dire: io l’allenatore mai, quando smetto sto in vacanza una vita. Poi, dopo sei mesi, farebbero qualunque cosa per allenare anche in serie C. Io, invece, non lo escludo. Sono fortunato. Ho avuto due tra i dieci allenatori migliori del mondo: Spalletti e Conte. Il terzo è Luis Enrique. Con un altro, Guardiola, ho giocato, e se dovessi prendere una panchina chiederei di andare a guardarlo per imparare. Sì, l’allenatore potrebbe essere una cosa che mi piacerebbe fare. Non subito, ma con i tempi giusti mi potrebbe interessare



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