Josè Mourinho, José Tolentino de Mendonça

AS ROMA NEWS MOURINHO – Incontro speciale per José Mourinho, che si al Centro Fede e Cultura ‘Alberto Hurtado’ della Pontificia Università Gregoriana per dialogare con il cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione del Vaticano, sul tema “Dalla fine del mondo”. L’incontro, verificatosi in occasione del decimo anniversario dell’elezione di Papa Francesco, verte proprio sul pontificato di Jorge Bergoglio e sulle prospettive da questo aperte.

Questo l’intervento del tecnico giallorosso:

“Dovevo stare di là, dalla parte degli studenti. Ho molto da imparare da voi e poco di interessante da dire. Mi scuso perché nei protocolli sono orribile e per questo saluto tutti.

Sono uscito dall’università andando subito a fare il professore, ma un anno dopo sono andato in una scuola di bambini con sindrome di down e non ero preparato. La mia formazione universitaria verteva sull’educazione fisica e sullo sport di alto rendimento. Sono andato alla scuola ufficiale perché avevo bisogno di lavorare e quando mi hanno mandato in quella scuola lì non avevo né esperienza né formazione. E sono arrivato con paura perché sentivo la responsabilità, un po’ come adesso. Alla fine di quei due anni, quando sono andato via, i bambini, i colleghi e i genitori erano molto tristi perché ero un professore eccezionale. Perché ho preso la mia salvezza, l’unica cosa che ho da dare è l’amore. Niente di più. E ho creato un rapporto con i bambini, che ancora oggi vedo quando vado in Portogallo. L’amore mi ha reso un professore eccezionale e a fare qualcosa di eccezionale per la crescita di questi bambini.

Ancora oggi, dopo 40 anni, continuo a considerare il mio professore di filosofia come il più importante per me. Lui mi disse: “Tu non sei un allenatore di calciatori, ma sei un allenatore di ragazzi che giocano a calcio”.

Queste due cose mi hanno aiutato molto nella mia strada. Chi di voi segue più il calcio può pensare che questo è un teatro e che io non sia davvero così. Ma invece lo sono. L’empatia e l’amore sono alla base di tutto”.

Nella scuola dello sport cosa si impara? Ci indichi tre cose.

“Purtroppo il mio sport fa parte di un mondo diverso dallo sport che vogliamo per i nostri bambini. Lo sport di alto rendimento è crudele. Non c’è spazio per i più deboli, l’obiettivo è molto chiaro: per noi professionisti è vincere. Lo sport di cui hanno bisogno i bambini, e che i genitori hanno bisogno di capire, è un altro, perché tante volte sono proprio i genitori con le loro ambizioni e frustrazioni a portare i bambini verso la crudeltà.

Nello sport di base, dove io sono cresciuto, con un collaboratore che ho ancora oggi dopo che l’ho avuto da calciatore a 12 anni, si impara tanto. Si impara più che nella propria casa, dove hai mamma e papà, invece lì hai uno spazio di evoluzione fantastico.

Io do il 200% di garanzia che ci sono genitori che dicono ai ragazzi di non passare la palla a un compagno, perché altrimenti segna più gol di lui. Questa è la crudeltà. Ma il calcio di formazione ha empatia, solidarietà, la ricerca della gioia di vincere, sapere che quando perdi la sconfitta non è l’inizio di un periodo difficile, ma la fine di un momento difficile.

Questo messaggio viene passato molto bene dallo sport. Non è solo lo sport che può dare questo, ci sono anche altre aree come l’arte. Ma lo sport dove non c’è la ricerca della performance è molto bello e mi ha aiutato molto nella mia formazione”.

Che percezione ha dei problemi e delle speranze della gioventù contemporanea?

“Il mondo di oggi è più difficile. Tanti giovani hanno difficoltà a rapportarsi tante cose irreali che entrano nelle loro vite, sui loro computer, sono cose che creano determinati tipi di aspettative. Per questo sembra che loro falliscano, ma non è vero. Tante cose che per loro sono un fallimento rappresentano un mondo ideale. E per me questo è un problema.

Quando si dice che il mondo è dei giovani non sono d’accordo. Il mondo è nostro, è di tutti. Il giovane che pensa di non avere niente da imparare dai capelli bianchi degli altri va in difficoltà, ma anche chi ha i capelli bianchi e pensa di non avere niente da imparare dai giovani è in difficoltà e rappresenta un ostacolo all’affermazione del mondo dei giovani.

Io sono un uomo di 60 anni, che è il leader 30 ragazzi tra i 20 e i 30 anni. Se non hai la capacità di imparare da loro, di avere l’umiltà di imparare da loro sei in grande difficoltà. Io sono in una fase della mia carriera dove questo ostacolo non esiste, ma l’ho avuto. Anni fa ho sentito questo ostacolo nel capire bene le necessità e la capacità di lavorare su un determinato tipo di condizione. Questo per me è importante, la costruzione del loro futuro non può essere senza ‘i capelli bianchi’. E chi ha i capelli bianchi, per restare giovane fino all’ultimo, ha bisogno della loro conoscenza dei giovani.

Il mondo è nostro. Io ci sono passato, nella fase in cui pensiamo di saperne di più dei genitori o dei nonni. Ma è durata poco. Questa crescita nella società è molto importante per loro.

Il modo più facile per definire un grande club è dire ‘vince tanto e quindi un top club’. Ma ci sono grandi società che non hanno mai vinto e sono grandi dal punto di visto sociale e affettivo. La Roma ha questa bellezza, che è ancora più bella quando la comunicazione locale cerca di dividere. Sono io a ringraziare i tifosi per quello che mi hanno dato in tutto questo tempo. Dal punto di vista sociale la gente ha bisogno di un riferimento, che non sono io ma è il club, in questo caso il nostro club. Questa empatia, questo senso di appartenenza, di famiglia, questo senso di ‘vinciamo e siamo felici, perdiamo e siamo tristi ma siamo insieme’ è un po’ come nelle famiglie”.



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