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Petrachi: “La Roma aveva dubbi sull’operazione Ibanez. Pedro è un mio colpo”

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ULTIME NOTIZIE AS ROMA PETRACHIGianluca Petrachi torna a parlare. L’ex diesse della Roma è intervenuto sul canale YouTube di Stefano Borghi, telecronista di Dazn. Queste le sue dichiarazioni: 

Mi sento un po’ un leone in gabbia in questo momento. Soprattutto perché mi è stata tolta la possibiltà di fare qualcosa di importante, ossia continuare il progetto dello scorso giugno. Oggi infatti si stanno vedendo i frutti della mole di lavoro fatta lo scorso anno, per questo c’è delusione e amarezza. Ora però sono pronto per riprendermi e fare qualcosa di importante“.

Si dice che l’ambiente Roma, una società con grande seguito che non riesce a vincere con regolarità, sia particolarmente difficile. Mi sembrano però degli ambienti dove se vinci e fai bene sei più esaltato rispetto ad altre realtà…
Io ho scelto di andare alla Roma sapendo cosa mi aspettava. Avevo la forza e la voglia di voler affrontare questa sfida. Credo che l’empatia nel rapporto con la gente e la tifoseria sia nata da subito, perché ho voluto dare quel senso di appartenenza. Non volevo infatti che questa società venisse vista come una succursale, senza vendere i giocatori più forti. O meglio, se una società avesse voluto i nostri giocatori avrebbe dovuto pagarli tanto. Ben vengano i problemi nelle grandi squadre, perché se riesci a far bene in piazze così è evidente che la soddisfazione è maggiore. Sono stato e sono tuttora consapevole che è un ambiente difficile, ma lavorando in maniera onesta e viscerale – ciò che piace al tifoso romanista – ho cercato di far bene, insediandomi nel sistema di questa tifoseria carnale. Stavamo facendo davvero un gran lavoro.

Quale è l’aspetto che ritieni più positivo? Quale era il tuo progetto alla Roma?
L’obiettivo del presidente Pallotta era ringiovanire la squadra, che aveva giocatori con ingaggi importanti che purtroppo non avevano reso, e prendere giovani di prospettiva su cui poi programmare qualcosa di importante negli anni a venire e nel triennio successivo, anche perché poi ai giovani serve tempo. Poi abbassare i costi, perché c’erano dei costi molto importanti e cercare di creare un blocco di 3-4 giocatori di esperienza che non costassero troppo, che fossero utili alla causa e che fossero inoltre conformi al progetto tecnico deciso con Fonseca. Da qui poi sviluppare la crescita di questi giovani. Questo è quello che io ho fatto nei primi mesi e successivamente al mercato di gennaio. Prendiamo come esempio l’acquisto di Villar e Ibanez.

L’esempio di Villar e Ibanez
Ho preso questi due giocatori pensando al futuro, ero consapevole che sia Ibanez sia Villar lo scorso anno non avrebbero potuto essere titolari. Villar veniva dall’Elche, Serie B spagnola, mentre Ibanez non aveva fatto un minuto in campionato nell’Atalanta. Puoi ben immaginare che mi abbiano dato del folle. Il mio ragionamento invece è stato questo: se non fossimo riusciti a tenere Smalling – perché comunque era in prestito e quindi c’era anche un riscatto importante eventualmente da esercitare – e se avessimo avuto altri difensori in uscita, io mi preparo Ibanez in questi sei mesi per avere un giocatore pronto a giugno del prossimo anno. Stesso discorso per Villar, nel senso che magari il giovane messo dietro ai Pellegrini ai Veretout, ai Cristante, può imparare tanto in questi 4-5 mesi e può diventare uno pseudo titolare da giugno in poi. Uno l’ho pagato 4 milioni, l’altro 9 milioni più uno di bonus. Un ‘pagherò’ inoltre per Ibanez, perché l’operazione era basata su un prestito e un riscatto al secondo anno. Sono stati affari che hanno fatto venire dubbi a qualcuno. La stessa società, soprattutto nell’operazione Ibanez, mi ha fatto intendere questo dicendomi tipo: ‘Ma come, non abbiamo una lira e spendi 10 milioni a gennaio su un giocatore che neanche dovrà giocare?‘. Io ho cercato di spiegare la filosofia per far calcio e per creare una programmazione, perché questo deve fare un direttore sportivo.

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Gli acquisti di esperienza e i senatori della rosa
Parlando dei giocatori di esperienza mi riferisco ad esempio Mkhitaryan, un giocatore preso a zero. Penso allo stesso Smalling preso comunque in prestito. Entrambi giocatori che presentavano anche delle problematiche, chi per un problema fisico, chi per un problema di titolarità nella propria squadra. Calciatori se vogliamo anche da aspettare per certi versi. Sono occasioni che un direttore deve sfruttare, altrimenti prendi giocatore lo strapaghi e fai un altro tipo di investimenti. Ho sempre cercato di lavorare sulle idee e sul tempo che ti deve portare determinati frutti, una figura a 360 gradi. Smalling e Mkhitaryan sono stati quindi acquisti funzionali, come lo stesso Pedro, un’operazione che ha portato a termine il sottoscritto. Non l’ho chiusa definitivamente firmando i fogli perché ero stato già mandato via, ma nel periodo del lockdown Pedro è un giocatore che aveva già fermato e chiuso con Fonseca. Il mister infatti lo aveva già chiamato per convincerlo del nostro progetto. Ho tenuto i giocatori su cui credevo di poter contare come Dzeko, che per me era imprescindibile; come Pellegrini, romano e romanista vero che poteva incarnare lo spirito del tifoso romanista; come Mirante, un portiere consolidato e una sicurezza assoluta. Ho fatto delle scelte mirate, ma sempre con l’avallo dell’allenatore. Nella mia carriera non mi sono ma impuntato per portare un determinato calciatore senza il consenso del tecnico. Questo è uno dei più grandi errori che un direttore sportivo può fare. Non puoi forzare la mano in tal senso.

Il direttore sportivo è forse la figura in una società che intesse più rapporti: con il presidente, con l’allenatore, con la squadra, con gli operatori di mercato…
…e con i giornalisti anche. Che spesso chiamano il presidente per cercare notizie, mentre uno come me cerca di dire al presidente di non parlare di mercato altrimenti alcune idee potrebbero essere rubate da altri club, con il seguente innalzamento dei prezzi e le aste per i calciatori. Bisogna essere silenziosi, quasi omertosi direi, anche se poi i giornalisti devono fare il loro lavoro e ‘rubare’ le notizie. Il problema in Italia è che ci sono poche figure che si prendono queste responsabilità e che si fanno rispettare per il loro ruolo. Alcune volte vengono scavalcati dai presidenti, che vogliono decidere tutto. Qualcuno inserisce il diesse solo perché deve comparire per organigramma, ma non è effettivamente operativo. Chi conosce il calcio e il mercato conosce questo tipo di situazioni. Abbiamo quindi alcune società dove c’è un direttore sportivo che si prende delle responsabilità e che decide ed altre in cui subentrano degli agenti, degli intermediari, degli amici del presidente e così via. Questo è un cattivo costume che prevale soprattutto nel nostro calcio. E’ un ruolo delicato dove sei sempre in prima linea e dove ti prendi le responsabilità, ma per le questioni di campo non ho mai detto a un allenatore quale calciatore far giocare o con quale modulo far scendere in campo la squadra. Non mi sono mai permesso di fare una cosa del genere. C’è un confronto, uno scambio di opinioni e di consigli sano. Come ho fatto con tutti, senza forzare però e tutti gli allenatori che ho avuto lo possono confermare.

Anche perché il feeling tra allenatore e diesse è importante…
Fondamentale.

Che rapporto hai avuto con Fonseca? Lo hai scelto tu? Hai avuto feeling con lui?
Con Fonseca ho avuto un ottimo rapporto, splendido dire. C’era un chiacchiericcio, si diceva che io e lui non fossimo in buoni rapporti, ma non è così. Ci sentiamo tuttora, siamo in ottimi rapporti. Credo il mister abbia apprezzato il mio modo di essere, ho cercato di aiutarlo a capire velocemente le problematiche del campionato italiano.

Infatti mi ha stupito molto. Già era un tecnico che stimavo molto, lui poi è arrivato con un’idea di squadra condivisa con te, poi c’è stata la necessità di cambiare modulo con la difesa a tre. Anche quest’anno sta andando bene. E’ stata una rivelazione Fonseca
Spesso parlavamo della difesa a tre e lui mi diceva che inizialmente ai giocatori non bisogna creare troppi equivoci tattici, dare loro delle fondamenta e poi mi rassicurava sul fatto che non fosse un integralista e che aveva provato la difesa a tre già in Ucraina. Questo mi ha sollevato e in effetti poi quello che mi diceva lo vedevo sul campo, perché spesso provava la difesa a tre in funzione dei diversi avversari. Parliamo di un lavoro di insegnamento sui movimenti, il pressing, il tenere la linea e una cosa è farlo con la difesa a tre o con una a quattro. Fonseca sa come insegnare questo ai suoi calciatori. Quando ha detto, in una delle ultime interviste, che sulla difesa a tre c’era stato un confronto con me ma che poi ha deciso lui, dice la verità. Certo che ha deciso lui, doveva decidere lui. Ne abbiamo parlato e ne parlavamo già gennaio-febbraio di questa cosa, che secondo me per le caratteristiche della squadra mi sembrava fosse il vestito più adatto alla Roma. Però alla fine lo ha deciso lui, io non sono mai più entrato nella diatriba. Io la vedo così, perché poi avevamo i terzini bravi a spingere, come Peres e Spinazzola, e con una difesa a tre li proteggiamo dal punto di vista difensivo. Questo ci permetteva di liberare il loro talento offensivo. Ma è Fonseca che ha scelto ed è lui che ci ha lavorato. Ne avevamo parlato, ma rimane una scelta sua. Voglio essere chiaro su questo.

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Sulle filosofie calcistiche in Serie A
Oggi in Serie A ci sono due esempi, l’Atalanta e il Sassuolo. A Bergamo i Percassi hanno dato fiducia a Gasperini, mentre a Reggio Emilia c’è De Zerbi che sta lavorando. Poi però dobbiamo ricordarci che ci sono piazze in cui hai tempo e serenità per fare un lavoro così, altre no perché vogliono subito vincere e ottenere risultati. Queste due società sono però due modelli da seguire come coerenza di lavoro, come lo è stato il mio Torino che ha fatto circa 200 milioni di plusvalenze e che è arrivato due volte in Europa League.

Nelle tue interviste e nei tuoi interventi ho sempre percepito un rapporto quasi viscerale con i calciatori, i ‘tuoi’ calciatori. Immagino tu abbia con loro un legame particolare. In che modo si pone un direttore sportivo per farlo rendere al meglio: come un dirigente puro o come una sorta di fratello maggiore?
Bisogna essere un po’ psicologo, per capire come vadano presi i giocatori. Se con il bastone o con la carota. Ci sono certi calciatori che hanno bisogno di supporto, perché sono giovani, acerbi e insicuri. Sempre se sono ragazzi positivi e non presuntuosi. Quello che i calciatori devono ricordare però è che devono fare i calciatori e che di quello che fanno rispondono alla società. Io ad esempio non mi sono mai posto il problema della gestione di Dzeko o di Pellegrini, che sono due senatori dello spogliatoio. Ho sempre avuto un confronto diretto e schietto con loro, non ho mai avuto remore nel dire nulla. I calciatori ti respirano addosso, capiscono quando hai o non hai personalità. Ho fatto delle conferenze stampa anche molto dure in passato, ma se ho fatto così è stato per tutelare il gruppo non perché volevo fare il supereroe. Volevo dare un segnale, ossia che la Roma esisteva perché purtroppo non avevo un presidente alle spalle che potesse intervenire al posto mio. Per questo mi sono sobbarcato di responsabilità non mie, ma sono contento di averlo fatto e lo rifarei. Non me ne pento. Se non lo avessi fatto avrei dimostrato ai miei calciatori di non contare nulla e se non conti nulla è meglio che stai a casa.

Su Bruno Peres
Tempo fa andai in Sudamerica e mi innamorai di questo giocatore del Boca, Sanchez Mino. Lo feci anche vedere a Ventura ed eravamo entrambi strabiliati. Era però la stessa sessione di mercato dove avevamo preso Bruno Peres e quindi avevamo il problema del doppio extracomunitario. La questione era che Mino si allenava con noi e Ventura mi diceva di accelerare per metterlo sotto contratto, tanto da dirmi di lasciare Bruno Peres. Io però credevo in Bruno ed ero convinto che anche lui aveva del potenziale e che potevamo contare su di lui. Alla fine riuscimmo a tesserare entrambi. Succede però che a inizio campionato la moglie di Sanchez Mino lo lascia, avevano anche un bambino piccolo. Lì ed è stata praticamente la fine, soprattutto poi quando sbagliò un rigore con il Sassuolo. Piangeva ogni giorno e io cercavo in ogni modo di aiutarlo. E’ stata una situazione disastrosa. Da quell’episodio la mia attenzione sui sudamericani si è alzata tantissimo, voglio conoscere ogni dettaglio e anche gli aspetti più umani.

Ci sono alcune società che si affidano sempre di più alle statistiche. Credi in questo modo di formare una squadra?
Assolutamente no. Anzi, ti dirò di più. Se mi fossi dovuto affidare alle statistiche non avrei mai preso un giocatore come Ibanez, che non aveva giocato un minuto con l’Atalanta. Aveva giocato solo quindici minuti in Europa, ma non si era mai visto. Mi sono preso delle responsabilità perché ci credevo, anche perché lo seguivamo anche noi insieme all’Atalanta prima che si trasferisse a Bergamo. Ibanez ha tutto per diventare un difensore centrale molto molto forte, perché ha forza, qualità ed è determinato, ma c’è un altro aspetto che voglio sottolineare. Quando l’ho preso alla Roma si allenava quasi sempre al 50% e Fonseca mi segnalò che questo atteggiamento non gli piaceva. Sempre nell’ottica di un rapporto collaborativo tra direttore e allenatore. Risposi che non era quel giocatore che avevo visto e che avevo raccontato. Ho parlato con Ibanez nella maniera giusta e toccando le corde giuste. Gli ho spiegato che io per lui ci avevo messo la faccia, ma che il primo a perdere continuando così sarebbe stato proprio lui. Inoltre gli ho fatto capire che l’Italia non era il Sudamerica, dove bastava allenarsi al 50% e poi dai tutto in partita, perché c’è una grande differenza di cultura tra queste realtà. Per i sudamericani gli allenamenti non sono indispensabili, si divertono ma il lavoro tattico specifico e di forza non lo fanno molto. Allora gli ho detto che da quel momento in poi lo avrei voluto vedere col coltello tra i denti perché altrimenti lo avrei rispedito indietro. E se avesse fallito alla Roma dopo aver fallito all’Atalanta sarebbe potuto andare solo in una provinciale come rincalzo. Avrebbe finito, se non si fosse messo sotto a lavorare. Lui ha recepito, essendo anche molto orgoglioso e molto intelligente, ha preso tutto ciò che gli ho detto. Ho trasferito a Fonseca questo tipo di confronto molto duro e molto aspro che c’è stato. Da quel momento Ibanez è partito e non è un caso se poi è diventato un titolare. Se non fosse stato pronto magari il mister avrebbe continuato a dare più spazio a Jesus o Fazio. Non era in una provinciale dove ti possono aspettare. E’ riuscito a svoltare.

Cosa sceglieresti per il tuo futuro?
Mi piacerebbe un presidente che capisce di calcio come Percassi, più costruttivo e più esigente proprio perché è un uomo di campo. Amo un calcio offensivo, dove a prescindere dall’avversario imponi il tuo gioco e per questo dico sempre di diffidare quando vedi squadre dove il portiere non sa che fare. E’ l’indice che lì non c’è una grande idea di calcio. Per questo vorrei un tecnico che allena così, credo che stimolerebbe di più anche i suoi uomini. Che giocatore vorrei? Ho visto questo 2004  che sta dall’altra parte del mondo e ho già sguinzagliato i miei uomini. Un difensore centrale fortissimo, appena il Covid me lo permetterà lo andrò a vedere dal vivo perché ha tutto. Mi ha colpito.

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Chi vince lo scudetto e chi arriva in Champions
E’ dura per il titolo, soprattutto perché c’è un aspetto che nessuno sta considerando: il fattore campo. Giocare nella Roma non è semplice: c’è pressione positiva quando le cose vanno bene, ma quando vanno male il pallone scotta e brucia. Un giocatore magari si scansa, si nasconde o non vuole ricevere il pallone. Il fatto che non ci sia gente è determinante, perché solo i campioni riescono a non considerare totalmente il fattore ambientale. Il resto dei calciatori patisce l’entrare in uno stadio infuocato come il San Paolo o Marassi. Sentire l’umore e il fatto che l’arbitro sia condizionato dal pubblico anche, tutte situazioni che ora non ci sono. Per questo il Sassuolo, la Lazio, la stessa Roma possono puntare a vincere qualcosa di importante. Fare la griglia delle prime quattro è difficile, il campionato è bellissimo ma il calcio vero è un’altra cosa.

Quali sono stati i calciatori più forti che hai incontrato in carriera?
Mi piace citare Hidetoshi Nakata, che secondo me ha raccolto meno di quello che avrebbe potuto fare.

FOTO: Credits by Shutterstock.com

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