ULTIME NOTIZIE AS ROMA PETRACHI – Gianluca Petrachi, ex direttore sportivo di Torino e Roma, si racconta a TMW parlando dei giallorossi e di molti aneddoti legati al club di Trigoria. Queste le sue dichiarazioni:
Chi è il direttore sportivo per Gianluca Petrachi?
“E’ il referente principale del Presidente. Deve fare i suoi interessi, in senso assoluto. Il ds si assume le responsabilità in virtù delle richieste della proprietà. Vuole i giovani? Vuole un progetto ambizioso? Vuole andare in Europa? Vuole una squadra matura e pronta subito per vincere un campionato? Alla base dell’inizio del percorso c’è questo: studi le esigenze della società e in base a questo metti a far fruttare le tue conoscenze”.
Crede nell’autonomia?
“Ci credo se è riferita a una condivisione di valori e scelte. Al Presidente posso dire ‘mi piacerebbe x o y a questo prezzo che è accessibile per un investimento’, oppure ‘questo è un usato sicuro o un prospetto che costa due lire ma può fruttarne venti’, deve esserci condivisione di idee. In primis col Presidente e con le sue linee guida e poi con l’allenatore”.
Chi sceglie l’allenatore?
“Come dicevo prima: il direttore sportivo ma in sintonia con la proprietà. Magari un Presidente si innamora di un tecnico che cozza con la visione del direttore o viceversa”.
Lei ha sempre condiviso le scelte dei tecnici?
“Da Pisa in poi, sì, tutto insieme ai miei Presidenti. Certo, a volte c’è stata condivisione totale, altre delle discrepanze. Poi ci sono situazioni contingenti, dettate dal momento o dai risultati, sulle quali aver controllo non è facile per nessuno ma l’idea di base è quella di condividere e avere la stessa filosofia”.
Da direttore sportivo molto legato allo scouting che rapporto ha con la tecnologia?
“Sono un grande utilizzatore di Wyscout: non puoi essere ovunque, devi valutare i giocatori anche dal video e sfruttare le tecnologie. Però tutto deve esser sempre confermato dal live, dalle impressioni dal vivo. E per le valutazioni finali va sempre il sottoscritto”.
Mai capitato di prendere un giocatore senza andare in loco?
“Sì, è capitato. Con Singo, per esempio: il suo agente, lo stesso di N’Koulou, mi fece avere dei video amatoriali. Gli ho dato fiducia: c’erano dei prospetti interessanti e ho intravisto Singo. Però, nonostante il costo ‘irrisorio’ di 150mila euro, non l’avrei mai preso a scatola chiusa: così mandai una settimana uno scout in Africa, in Costa d’Avorio, a vedere il Denguelé… Terre difficili, provini unici, ma le sensazioni dal vivo su Singo furono le stesse. Però era extracomunitario e me lo sono tenuto ‘caldo’ fino all’ultimo giorno di mercato per evitare di occupare il posto”.
E così fece.
“Singo non l’ho mai visto live e anche il mio braccio destro non lo ha visto bensì uno dei nostri dello staff. Però mi sono sempre fidato molto dei miei uomini, del mio capo scout Cavallo e delle altre cinque persone che lavorano al mio fianco”.
Ci racconta il metodo Petrachi?
“Quando arrivo in un club studio la struttura, i giocatori, il materiale a disposizione. In base all’allenatore che c’è, o a quello scelto, capiamo chi tenere. Mi serve un terzino sinistro? Chiedo ai miei scout di stilare una lista di cinque nomi che reputano validi e adatti e faccio io la valutazione. Mi piacciono? Andiamo in profondità. Non mi convincono? Altri cinque. Quando uno mi intriga, lo seguo più in profondità, poi faccio fare due valutazioni, da uno scout e da Cavallo. Finché potevamo, giravamo molto e lo avremmo fatto anche ora che ci teniamo aggiornati”.
Così vi siete buttati senza sosta sul video.
“Sul live siamo sempre andati ma sono molto attento ai costi. Mi sono mosso sempre quando c’era la necessità, con un occhio alle spese”.
Scuola Cairo.
“E lo dico con vanto e orgoglio: spese gestionali di scout basse e giocatori presi con costi contenuti”.
Con una predilezione per il Sudamerica.
“Amo il Sudamerica in modo particolare. In Brasile se conosci il paese, il dna, cogli frutti giusti. C’è tanto talento, la gente gioca per strada, è figlia di un calcio diverso ma che va saputo curare. Il talento brasiliano è perfetto: se c’è testa, disciplina, in Italia diventa un campione. E poi l’argentino: l’argentino è più adatto al nostro campionato, è più malleabile, all’Italia ma ad ogni ambiente. E poi ha fame, ha la garra che ci piace”.
Dell’America e della MLS che pensa?
“Al campionato statunitense mi sono già affacciato cinque anni fa. Alla MLS ho ceduto per esempio quello che sarebbe stato poi il capocannoniere e stella di Atlanta e dell’intera lega, Josef Martinez dal Torino. E poi quattro anni fa vidi un giocatore… Sorprendente. Me lo fece notare il mio caposcout. Vidi dei video e sembravano taroccati, accelerati. ‘Va troppo veloce, non è possibile’, pensai. Era Alphonso Davies”.
Ancora a Vancouver.
“Mi colpì in modo terribile. Faceva l’ala sinistra coi Whitecaps, fu una segnalazione di un amico che collaborava con noi e che segue questi mercati. Ci segnalò dei prospetti giovani e iniziai a trattare. Solo che era sedicenne, extracomunitario. Prenderlo, portarlo al Torino, significava portare anche la madre e darle un impiego. Era minore e serviva un iter burocratico che è diventato da subito complicato, intricato. Era il 2016, la questione lavorativa divenne uno scoglio ma con la famiglia parlammo a lungo della possibilità. Trovammo anche la quadra con Vancouver: 1.5 milioni più bonus. Però fui costretto ad abbandonare il colpo per la burocrazia”.
E’ il caso più eclatante?
“Ce ne sono altri. Uno è Lautaro Martinez. A 7 milioni di euro, sempre al Torino. Ci furono problemi con degli emissari per delle commissioni fuori mercato che ci vennero chieste: erano troppo alte, un po’ meno della metà del cartellino. Se l’avessi detto a Cairo, conoscendolo, mi avrebbe mandato…Volevo prendere Lyanco dal Sao Paulo e Martinez dal Racing de Avellaneda, le stelle che mi colpirono di più in quel Sub-20 in Ecuador. Con Lyanco siamo andati a segno. Era il 2017: iniziai la trattativa ma per Lautaro non andò a buon fine per questioni di mediazione. Era lui l’attaccante che avrei voluto per il Torino. Mentre come terzino sinistro stavo per prendere Faouzi Ghoulam”.
Ma…?
“Ma non arrivò, chiaramente. E non lo fece per 250mila euro. Prima che lo prendesse il Napoli, il Saint-Etienne chiedeva 3 milioni e mezzo, Cairo si fermò a 3.250…”.
Avanti con la lista.
“Mi son fatto scappare Riyad Mahrez. Era il 2013, parlo col suo agente Kamel Bengougam che interloquiva col mio staff. Giocava nel Le Havre ed era in scadenza. Scelto Mahrez come vice Cerci però al Presidente Cairo detti un numero, una cifra. Solo che quella cifra dopo aumentò e non gli piacque… Ero pronto a fare cinque anni di contratto a Riyad, con l’agente pattuisco 150mila euro di commissioni. Mi metto d’accordo sul contratto, ne parlo con Cairo e gli spiego che per il 4-2-4 di Ventura sarebbe stato perfetto”.
Cosa accadde?
“Bengougam mi chiamò e mi disse che stava trattando con un’altra squadra. Voleva darlo a noi ma voleva convertire la commissione da 150mila euro a 150mila dollari che all’epoca aumentavano la cifra. Saltò l’operazione e Mahrez… Andò al Leicester. Fu un mio errore ma non volevo deludere il mio Presidente al quale avevo promesso il giocatore a un prezzo”.
Un eccesso di aziendalismo.
“Al Presidente non l’ho mai detto, la responsabilità è tutta mia. E con quell’agente non ho mai più parlato”.
Quale colpo la rende orgogliosa?
“Il giocatore che quando arriva diventa complementare in una squadra. Prendere Darmian per tre milioni circa, vederlo diventare titolare e venderlo al Manchester United. Vives che fa otto campionati e diventa il proletario capitano del Torino che torna in Serie A e va in Europa League. Tre anni di Pisa, con Castillo che diventa bomber per antonomasia, Raimondi che dai dilettanti diventa leader e capitano del club”.
Agli Europei l’attacco dell’Italia sarà formato da due giocatori che lei ha portato al Torino.
“Immobile arrivò dal Genoa dopo aver segnato poco. Ci abbiamo creduto insieme a Ventura e poi è andato al Dortmund. Gli sconsigliati di andare all’estero, lui è uno per carattere e caratteristiche da Italia. Però è un campione, lui come Belotti che arrivò dopo che giocava e non giocava nel Palermo. Sono due ragazzi che hanno la sana e giusta cattiveria di cui parlo sempre: sono umili e questo li rende grandi. Poi sono uniti, amici, ed è bello che ci sia questa sana rivalità anche in azzurro”.
Andiamo a Roma. Ai giocatori che ha preso nella Capitale.
“Uno di quelli che andranno con tutta probabilità all’Europeo è Leonardo Spinazzola. E’ un orgoglio che ci siano tanti ragazzi nel giro azzurro la prossima estate, compreso Gianluca Mancini. Tornando a Leonardo: vero che a bilancio risulta a tanto ma c’è stata plusvalenza con la Juventus. Il differenziale, nell’affare che ha portato da loro Luca Pellegrini, è di 7 milioni. Ecco, per 7 milioni ho portato Spinazzola alla Roma. E poi Jordan Veretout”.
Uno che anche dopo la fine della sua avventura a Roma, come abbiamo avuto modo di leggere, l’ha ringraziata.
“Per 17 milioni più 2 di bonus ho portato a Roma il centrocampista attualmente più prolifico della Serie A e un ragazzo speciale”.
Dalla Spagna ha preso Villar. Cosa l’ha colpita?
“La sua postura. Si posiziona sempre nel modo corretto per ricevere il pallone, come se glielo avessero insegnato da piccolo. La postura è fondamentale, apri o chiudi il corpo e sei pronto per la giocata. E’ una virtù incredibile ma è un fattore sul quale Fonseca lavora tanto. Vuole giro palla veloce ma con lo scarico del centrocampista. Se la postura è sbagliata, scarichi sempre indietro”.
Smalling e Mkhitaryan a zero posson essere definiti quasi due capolavori?
“Henrikh come gol e assist anche in questa stagione è tra quelli col miglior rendimento. E Smalling, insieme a Mancini e Ibanez, a mio modesto avviso forma una delle migliori linee difensive del panorama internazionale”.
Pau Lopez, invece, come un rimpianto? La gara con l’Ajax, potrebbe essere un nuovo inizio.
“Sfato un ‘luogo comune’. Diciamo che non l’ho pagato 30 milioni ma che è la cifra a bilancio. Di mezzo c’è stata la metà di Sanabria: l’ho pagato 18, che comunque sono sempre tanti. Non sono dispiaciuto di aver preso Lopez, è un buon portiere e con caratteristiche giuste, scelto anche per come gioca coi piedi condividendo la scelta con Fonseca e con Savorani. Solo che ha avuto come un black out e quando sei un portiere è dura rialzarti. Immagino come abbia sofferto: fa grandi parate, decisive, come ieri, e a volte perde la serenità nel giocare coi piedi che era la sua miglior virtù”.
Di questa Serie A che le piace?
“Il coraggio falsato”.
Che intende?
“Senza gente sugli stadi, giochi con minor pressione. Vorrei vedere certe giocate o certe idee a San Siro o all’Olimpico o col San Paolo pieni. Giocare palla al piede, prendersi dei rischi, non è facile, non è semplice. Oggi mi piace la spensieratezza che c’è, dettata dalla minor pressione. E’ saltato il banco, non c’è più il fattore casa e le sfide sono molto più inglesi. Ecco, mi piacerebbe che questo coraggio, spero presto, non fosse più falsato ma diventasse la regola”.
Dunque sta coi ‘giochisti’, con la costruzione dal basso.
“Nasco con l’idea di calcio organizzato. Però un tecnico che codifica, deve saper trovare anche delle soluzioni. Deve trasmettere alla squadra le sue idee ma anche l’intelligenza di essere duttile. Capire che se l’avversario ti pressa alto, con gli attaccanti, con la mediana, ecco che allora davanti sei altrettanto in condizione di parità numerica. Lì è la giocata determinante, saper quando andare in profondità. Perché andare sempre alla ‘viva il parroco’? La palla è mia e decido io cosa farne”.
Lei non è riuscito a decidere fino in fondo cosa fare della sua avventura alla Roma.
“Credo che nella vita le separazioni consensuali siano quelle meno dolorose. Ognuno va per la propria strada, quando non c’è più amore finisce tutto. Solo che lì la separazione non è stata consensuale. La giusta causa non c’era e la giustizia l’ha dimostrato. Mi sono buttato a capo fitto in quel progetto, ho dato tutto e ci sono rimasto male. Ora però il tempo è passato, è stato galantuomo: la giustizia ha raccontato come sono andate le cose. E sono pronto, siamo pronti per un nuovo capitolo della nostra carriera”.
In Italia?
“Non amo andare all’estero, amo il mio paese, la mia nazione. Sono legato al territorio e sono pronto, in Italia, a sposare un progetto ovunque. Certo, dire questo può precludermi delle strade ma credo che la qualità della vita sia fondamentale. E come si vive in Italia…”.
E come si fa il ds in Italia, soprattutto. Anche se adesso pure in Inghilterra scoprono il ruolo tanto che il Manchester United ha scelto il primo direttore sportivo della sua storia.
“Credo che in un club qualcuno debba prendersi sempre l’onere e le responsabilità di decidere e di coordinare una squadra, un gruppo di lavoro. Devi rapportarti col capo, col Presidente, ma devi essere un trait d’union tra tutte le componenti. Un mediatore, un interventista, un decisionista, tutto a seconda del momento”.
Le manca l’emozione della decisione.
“Quell’entusiasmo è alla base del nostro mestiere. Quel coraggio, quello di prendere D’Ambrosio dalla C2, è gratificante, bellissimo. Il rapporto con tutta la squadra, col tecnico. Io sono uno molto di campo, mi confronto coi giocatori e intervengo anche. L’ho fatto con Ibanez a Roma, per esempio, che giocava tutto tacco e punta. Come può farlo un allenatore che vuol fare il direttore, il tecnico, scegliere gli acquisti, le cessioni? C’è una sola voce, invece ‘a ciascuno il suo’”.
Impossibile controllare tutto, soprattutto nel calcio di oggi.
“Faccio un esempio. Devo sapere che esiste Junior Messias del Crotone. Non posso accorgermene alla prima di campionato, per questo mi sono arrabbiato col mio staff: ho chiamato il mio capo scout e gli ho chiesto lumi. Mi ha detto ‘eh, ma ha trent’anni’. Non mi interessa. Se hai talento, non conta l’età. Devo saperlo, non conoscerlo è stato un errore da parte nostra”.
Con le statistiche, magari…
“Tutto vero, i numeri aiutano, la tecnologia è sempre più importante. Però se mi fossi basato solo sui meri numeri, sui pochi minuti che aveva fatto in precedenza all’Atalanta, non avrei mai preso Ibanez per 8-9 milioni pensando che potesse diventare un titolare alla Roma. E lo si è visto anche dalla gara contro l’Ajax di ieri quale sia adesso il suo livelo. Il giocatore deve emozionarti, deve darti dei segnali. Sennò questo mestiere non lo fai, devi rischiare”.
Lei è social?
“Non mi sento parte del mondo social, no.”.
A differenza del suo ex Presidente James Pallotta. Negli ultimi tempi c’è stata una svolta
“In parte lo giustifico. Pallotta ha commesso degli errori, affidandosi a persone sbagliate a distanza di tanti chilometri. E’ stato poco presente, doveva respirare l’umore della piazza ma vi confesso una cosa: avrebbe voluto restituire tutto coi risultati per poi ripartire. Voleva riprendere da lì, da quello che aveva tralasciato. Ci teneva particolarmente alla Roma ma così, a distanza, è tutto più difficile e spesso si sbagliano valutazioni e decisioni”.
E’ come per il giocatore. Va bene il video, va bene lo studio, ma è dal vivo che si prendono le decisioni.
“Torniamo lì. E’ tutta una questione di emozioni e di decisioni da prendere”.
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