AS ROMA NEWS PRUZZO DI BARTOLOMEI – Roberto Pruzzo, storico bomber della Roma dello scudetto 1983, ha rilasciato un’intervista a Il Messaggero ricordando Agostino Di Bartolomei. Queste le sue parole:
Pruzzo, sono già passati 30 anni.
«Ogni tanto ci penso, anche quando non è l’anniversario. Non è tanto per dire, per farmi bello, chi mi conosce lo sa. Ago è stato parte della mia vita. Quando sono arrivato a Roma ero un ragazzino e fu la prima persona che conobbi. Tempo di una chiacchierata e mi invitò a casa sua. Abitava a via del Serafico. Mentre pranzavamo, mi propose di dormire da lui. Rimasi due, tre giorni, il tempo di trovare qualcosa. Passava per essere un orso, un introverso e invece non era vero. Era di una generosità incredibile».
Un po’ come lei. Forse è per questo motivo che andavate così d’accordo.
«Sì, può darsi. A noi ci fregava il fatto di essere un po’ timidi. Così sembravamo due scontrosi brontoloni. Ma non è così. Ago era veramente una bella persona. Lo percepivi subito. Era educato, uno che difficilmente sbagliava un comportamento. Lo dovevi conoscere, quello sì, perché non era un ragazzo che si apriva con tutti. Aveva pregi e difetti, come chiunque. A volte sembrava assentarsi, vivere in un mondo tutto suo. Però quando serviva era sempre presente, non si tirava mai indietro. Siamo stati insieme 10 anni, non 10 giorni. È inevitabile che quando abbiamo smesso di giocare le strade si siano divise. Ci sentivamo di meno, c’eravamo visti un paio di volte ma restava sempre un bel pensiero e la certezza che se alzavi il telefono, lui c’era».
Negli incontri che a volte fate tra ex compagni di squadra, vi capita di parlare di Di Bartolomei?
«Certamente. Nessuno di noi, di quella Roma intendo, riesce ancora oggi a darsi una spiegazione. Perché nella vita puoi stare male, puoi avere dei problemi, puoi essere dimenticato nel dopo-calcio, però così no… Così no, non doveva fare un gesto del genere (si commuove, ndr)».
Anche lei ha vissuto negli anni scorsi un momento difficile.
«Sì, non amo parlarne troppo. Sono stato più fortunato. Devo dire grazie ai miei amici, a mia figlia, a mia moglie. Forse rispetto a Ago ho mandato qualche segnale in più che è stato percepito. Lui invece non lasciava trasparire mai nulla. E per chi gli stava vicino non era possibile accorgersi del suo malessere. Sono momenti, cose così intime che fai fatica a spiegarle. Arriva un malessere che non riesci a calmare. E lentamente si trasforma in disagio costante, continuo. Lì, ripeto, devi essere soltanto fortunato».
Le va di raccontare anche l’Agostino che in pochi conoscevano?
«Non saprei da dove cominciare. Qualcuno mi prenderà per matto ma Ago sapeva anche essere divertente. Lo vedevi tutto serio, impostato, se serviva si faceva sentire, anche a brutto muso. Poi però all’improvviso se ne usciva con delle battute da romano de Roma. Oppure ti dava un cazzottone sulla spalla e ridacchiava come un bambino».
E in campo?
«Appena arrivai a Roma avevo bisogno di calciare i rigori per la classifica dei cannonieri. Non sapevo però come dirglielo, anche perché lui non ne sbagliava uno. Stavo lì, che aspettavo, e questo ogni volta la buttava dentro sfondando la rete. Dentro di me dico, qui è un casino, che faccio? Vado allora dal Barone (Liedholm, ndr) e gli chiedo “Mister ma perché non ci parla lei?”. E quello, “Vediamo Roberto cosa si può fare”. Non succede niente. Un giorno mi faccio coraggio e mi avvicino, ci parlo e lui nemmeno mi fa finire la frase: “Tranquillo, non ci sono problemi”».
C’è un altro ricordo che riguarda i rigori?
«Questa non l’ho mai raccontata. Roma-Dundee, semifinale di Coppa Campioni. Siamo 2-0 e ci danno un rigore. In teoria avrei dovuto batterlo io. Dentro di me però dico: “Porca miseria, potrei segnare la tripletta che mi fa entrare nella storia ma se poi lo sbaglio mi vado a incasinare la vita”. Prendo così il pallone, mi giro e vedo che nessuno mi guardava. Chi si tirava su un calzettone, un altro che faceva finta di allacciarsi uno scarpino. Da dietro arriva Agostino e gli faccio “Vai Ago mi sembra che sia il caso che ci pensi tu”. Prende il pallone, tira una cannonata e 3-0 per noi. Ecco questo era Di Bartolomei».
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