Patrik Schick

Patrik Schick, attaccante della Roma, ha rilasciato un’intervista al portale ceco Reporter. Queste le parole dell’ex doriano:

Le prime esperienze calcistiche?
Mi facevo notare, segnavo molto, ma quando non ci riuscivo piangevo talmente tanto che i miei allenatori mi dovevano sostituire. Papà si preoccupava per me, assisteva sempre alle partite e quando facevo qualcosa di sbagliato si copriva gli occhi con le mani e scuoteva la testa: mi rendeva nervoso. A 12 anni ero un giocatore dello Sparta Praga e partecipai a un torneo. Per qualche motivo, papà scosse ancora la testa, e quando mi urlò qualcosa non ressi più, mi girai verso di lui e gli feci il dito medio. Penso che qualcosa successe in quel momento. Sono cambiato molto. Fino ad allora, me la prendevo parecchio, ma improvvisamente pensai: “Chi sta giocando a calcio qui? Io o lui? Io!”. Papà smise, ma ci furono altre persone che davano consigli non richiesti e parlavano. Non ho mai più mostrato il medio, di solito ondeggio la mano, ma significa la stessa cosa.

I primi approcci col calcio?
Ricordo quando in seconda mi comprarono gli scarpini, e quando mi chiesero il giorno dopo come fosse andata a scuola, risposi “è andata”, ma in realtà per tutto il tempo ero eccitato di tornare a casa e indossarli.

I tuoi idoli?
Ho una dozzina di maglie di Beckham. Avevo anche i poster sopra al letto; ma all’età di otto anni guardavo gli Europei in Portogallo, vidi Cristiano Ronaldo e diventò il mio idolo numero due, mi piacevano i suoi scarpini dorati. Poi ho iniziato a vedere video di calcio su internet e spesso finivo su quelli di Ibrahimovic: loro sono la mia Trinità.

Non piacevi ai primi allenatori?
Lo so, ma loro non sapevano cosa facessi a casa. Per esempio, ho corso per 7 anni. Decidevo che sarei stato il migliore la volta dopo. Non andavo agli allenamenti due ore prima o tornavo a casa due ore dopo, non andavo in palestra regolarmente, penso che non sia necessario. Non devo fare le gare, devo segnare.

Lo Sparta Praga e le esperienze da raccattapalle?
In una partita contro il Manchester United, Wayne Rooney, 17 anni, corse verso di me, che ne avevo 8. Questo è quello che voglio, non dover mai avere un lavoro normale. Vivere come lui.

I primi allenamenti?
Avevamo solo due o tre allenamenti a settimana, e mi dispiaceva perché li volevo quotidiani. Aspettavo impaziente la fine dell’allenamento per giocare la partitella, ricordo che una volta mi arrabbiai perché non la giocammo. All’allenamento successivo lo feci notare, sono un tipo che ha bisogno di giocare col pallone.

Il passaggio dal Vestec allo Sparta Praga?
Non ero nervoso, mi calmai immediatamente. L’emozione più forte fu questa: “Finalmente mi posso allenare tutti i giorni”. Ero ricco ed eccitato e intorno al diciottesimo compleanno andò anche meglio, perché iniziai ad allenarmi con gli adulti e lo Sparta mi offrì un nuovo contratto da 30.000 corone al mese: realizzai che ero diventato un professionista. Un vero giocatore dello Sparta che poteva comprarsi un nuovo iPhone al mese, una bomba!

Ci furono anche i primi problemi…
Cinque anni fa giocammo a Jablonec e vincemmo 3-0. Segnai due gol, uno molto bello all’incrocio dei pali, per cui c’era soddisfazione. Due ore dopo arrivammo al nostro centro di allenamento a Strahov e fui chiamato in ufficio dal direttore sportivo Jaroslav Hřebík e dal tecnico Martin Hašek. Ero sicuro che mi avrebbero fatto i complimenti, ma quando entrai mi resi conto che qualcosa non andava. Avevano già preparato un video con le mie azioni. Iniziarono a dirmi che non avevo lottato, che non tornavo in difesa, che non avevo lavorato per la squadra. Mi preoccupai, ma arrivai alla conclusione che non era niente di grave. Volevano che corressi e lottassi di più sul campo, ma credo che un calciatore debba migliorare principalmente negli aspetti in cui è già sopra la media. Sono sempre stato sopra la media nel far gol; posso creare opportunità per gli altri o farli io. Dissi che se non gli piacevo, avrei giocato da qualche altra parte, ma che non avrei cambiato il mio modo di giocare. Probabilmente non correrò mai ad aggredire gli avversari come un pazzo, sono un tipo che vuole giocare nel modo più intelligente possibile e più possibile col pallone, questa è la mia filosofia. Se provassi a fare in modo diverso, sarei a disagio.

Nel 2014 le prime vittorie…
A Teplice nel 2014 perdevamo 2-0, entrai negli ultimi 10 minuti, ma dentro di me ero contento e trattenevo le risate. Mi dissi di non ridere perché lo Sparta stava perdendo e la telecamera mi avrebbe inquadrato. Ma lo Sparta festeggiò il titolo e feci anche il double con la coppa, a 18 anni.

Il prestito al Bohemians dell’anno dopo?
Nell’estate del 2015 sapevo già che dovevo cambiare aria. L’idea di andare tutti i giorni a Vlašim, in terza serie, però mi faceva star male. Sono grato al Bohemians, ma gli inizi non furono buoni. Per esempio, sembrava che i miei compagni mi trattassero come un riccone venuto da fuori. Alla fine, mi aprii con loro e questo mi aiutò.

La fine del rapporto con lo Sparta?
Sapevo che c’erano squadre interessate a me in Europa, ma ero ancora un giocatore dello Sparta e mi proposero un nuovo contratto. Sarò onesto, mi offrirono 60.000 corone al mese. Non ci credevo, mi dissi che non era possibile. Capisco che per molte persone sono tanti soldi, ma un calciatore ha una carriera breve e altri mi offrivano 400.000 corone al mese. Non era il momento di accettare lo Sparta. La questione era se avrei preferito giocarmi il posto con Lafata, che avrebbe segnato 40-50 gol, per 60.000 corone al mese, oppure andare in Italia per un milione al mese, con più o meno le stesse possibilità di giocare. Non è una questione di soldi, paragonai le due offerte: pensai ci fosse stato un equivoco ed ero arrabbiato. E mi dispiace. ”Calma”, dissi. “Se mi lasciate andare ci guadagnerete, altrimenti andrò via gratis tra un anno, alla scadenza del contratto. Scegliete pure”.

L’arrivo alla Sampdoria?
Giampaolo mi chiese come mi chiamassi e mi resi conto che non sapeva chi fossi. A volte mi sono chiesto se sarei dovuto rimanere allo Sparta. Dopo le partite in cui non giocavo, stavo a casa arrabbiato, a malapena salutavo Hanca e mi chiudevo in camera, da dove chiamavo il mio agente Taborsky perché non sapevo cosa fare. Lui e Hanca (la compagna, ndr) mi dicevano di non fare nulla e di essere paziente, così ci provai e ci fu una svolta. Ero a Torino dove giocammo contro la Juventus, alla fine di ottobre. Probabilmente voleva farci fuori, dandoci una chance per poi avere motivi per non farsi rompere le scatole dopo la sconfitta. Ma andò abbastanza bene e dopo un quarto d’ora segnai, fu una fortissima emozione. Per un po’ non ho creduto che fosse vero, nonostante non ci fosse nulla di strano. Provai entusiasmo per diverse settimane.

I rapporti con Giampaolo e gli inizi alla Samp?
Due giorni dopo in allenamento sbagliai un paio di volte e lui cominciò a urlarmi contro in modo isterico. C’erano anche i miei genitori a vedermi. Quando tornai a casa mi chiusi in camera e diedi calci alle sedie per un’ora. Chiamai di nuovo il mio agente e mi disse che la mia chance sarebbe arrivata. Nella partita successiva l’allenatore mi fece scaldare all’intervallo, ma al 18’ mi disse di sedermi perché sarebbe entrato qualcun altro. Ma poi lui fu allontanato per proteste e il suo secondo mi chiamò: nella mia testa avevo già smesso di giocare, ma entrai e segnai al 90’. All’inizio della stagione, nessuno mi riconosceva a Genova, potevo passeggiare e andare nei negozi, ma dopo pochi mesi ho completamente perso la mia privacy. Diverse volte sono rimasto barricato a casa con Hancha, perché lei voleva uscire e io dovevo dirle no perché non ero dell’umore per fare sorrisi forzati alla gente.

Le proposte di mercato quest’estate?
Alla fine della stagione potevo scegliere, le offerte che mi piacevano di più arrivavano da Torino, Milano e Roma. Scelsi la Juventus, ero stato chiamato da Nedved e tutto sembrava affascinante. Non vedevo l’ora. A giugno mi sentivo un giocatore della Juventus, ma in realtà non lo ero.

Le visite mediche a Torino?
Sapevo che non era niente di serio, era un’infiammazione cardiaca che era passata, stavo bene, sapevo di avere abbastanza tempo per riposare e che tutto sarebbe stato normale, ma la Juventus rinviò il mio trasferimento. Quando tornai dalle vacanze, il mio agente Paska mi disse che sarei dovuto tornare a Torino per altri test. Risposi che non sarei andato da nessuna parte. Alla Juventus non importava più di me, ero un po’ arrabbiato. A metà luglio, la clausola di risoluzione da 25 milioni non fu più valida, dunque il presidente della Sampdoria mi disse che avrebbe voluto spuntare il prezzo più alto possibile e lo fece, cedendomi per 40 milioni di euro alla Roma. Quando ho firmato, ho provato grande sollievo perché potevo concentrarmi solamente sul calcio. Sono sicuramente più tranquillo di un anno fa a Genova, perché arrivai come un signor nessuno, ma qui tutti mi conoscono, sanno che sono un giovane che qualcosa ha fatto. Kolarov mi ha rassicurato e mi ha detto di non subire il peso del costo del mio cartellino, di star calmo e che tutto sarebbe andato bene e che sono stati loro a voler spendere quei soldi e l’hanno fatto.

L’arrivo a Roma?
Quando ho visto il centro di allenamento mi sono reso conto che qui posso ottenere il meglio, non so se cose del genere esistano da altre parti. Non mi devo preoccupare di nulla, qui ci sono campi perfetti, i migliori sistemi di recupero, la palestra, i nutrizionisti ci misurano continuamente e ci dicono cosa mangiare, ci sono dozzine di impiegati solo per noi.

Il futuro?
Spero di potermi trasferire tra qualche anno in un club ancora migliore, dove sarò ovviamente pagato ancora meglio, è una motivazione che mi ha sempre aiutato molto. Dove? Non credo di poter andare molto più in alto di così. Ma forse restano un paio di club… Diciamo Real Madrid, Barcellona o Manchester United.



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