Alisson

(Il Messaggero – M. Ferretti/U. Trani) Un’ora scarsa in compagnia di Alisson Becker,portiere della Roma (e della Seleçao) con le mani da pianista. Ragazzo sveglio, serio, sicuro di sé ma carico di umiltà.

Come mai la scritta Becker sulla maglietta?
«Avevo sempre messo Alisson, il mio nome, ma quando in estate sono tornato in Brasile un mio amico mi ha consigliato di mettere Becker per distinguermi dai tanti Alisson che ci sono nel calcio brasiliano. Di Alisson Becker, così, ce ne è uno solo».

Quindi dobbiamo chiamarla Becker o continuiamo con Alisson?
«No, Alisson va bene».

Nella Seleçao lei è Alisson o Becker?
«Dalla prossima volta sarò Becker, anche per pubblicizzare un miomarchio AB1, che per ora non ho esportato in Italia».

Va avanti l’iter per il suo passaporto italiano?
«Ho la possibilità di diventare italiano tramite mia moglie, che ha origini italiane. Io le ho tedesche, ma non posso diventare comunitario. Quando mia moglie prenderà la cittadinanza italiana potrò prenderla anch’io. Quando avverrà? Non lo so».

Come ha vissuto lo scorso anno senza giocare nella Roma?
«E’ stato un periodo un po’ difficile, ma nulla che mi abbia spinto a mollare o che mi abbia mandato in depressione. Io, però, in Brasile ero abituato a giocare cinquanta partite l’anno e qui avevo voglia di giocare non tanto perché ero e sono il portiere della Seleçao quanto proprio per il piacere di giocare. Arrivavo al campo d’allenamento, lavoravo sempre al cento per cento ma il non giocare mi ha dato un po’ di fastidio. Mi mancava tutto quello che c’è prima e dopo una partita, ma non ho mai mollato. Ero anche preoccupato di non poter tornare quello delle cinquanta partite l’anno, e così mi sono allenato più forte del solito. E con maggiore concentrazione. Ho fatto le mie cinquanta partite in allenamento e questo mi ha permesso di presentarmi ogni volta in Brasile in buona forma. Non nego di aver pensato anche di chiedere la cessione per poter giocare di più, e dare così maggiori garanzie alla Roma in chiave futuro».

Domani ritroverà Szczesny.
«Sarà bello farlo, io gli voglio bene, abbiamo avuto un bel rapporto e tra noi due c’è grande rispetto. Non c’è mai stato alcun problema anche se lui giocava e io un po’ meno.Magari gli chiederò la maglia…».

L’etichetta di miglior portiere del campionato?
«Non mi fa nessun effetto, è solo uno stimolo per lavorare ancora di più e stare anche più attento perché quando sei il meno battuto tutti ti vogliono far gol».

Come si immagina la gara di domani?
«Noi stiamo facendo un percorso per arrivare al nostro obiettivo, che è lo scudetto. Quindi per conquistarlo dobbiamo vincere contro tutti. Ho sensazioni positive perché ho fiducia nella mia squadra oltre al rispetto per la Juve. Sono i campioni da sei anni e finalisti in Champions due volte negli ultimi tre, quindi fortissimi. Ma anche noi siamo forti: andiamo a Torino per guadagnare tre punti».

In una classifica dei migliori portieri al mondo, dove si piazzerebbe?
«Ho fiducia nei miei mezzi ma anche tanta umiltà e so stare con i piedi per terra. Mi metto tra i primi dieci, ma so che nel calcio si vive di momenti e se uno non fa bene una partita poi annulla anche quella buona fatta in precedenza. La suamigliore qualità? «Un mix di cose, ma la concentrazione è il mio punto forte. Cerco sempre di lavorare sulla tecnica, Savorani (il preparatore, ndr) mi ha aiutato tantissimo sotto questo aspetto, ma la concentrazione conta tanto. Io lavoro con la tecnica, la forza e l’esplosività, ma se non hai un aspetto psicologico forte il resto non conta niente».

Ha studiato il modo di giocare della Juventus?
«Mi piace guardare le sue partite. Inoltre, l’allenatore ci fa vedere le gare dei nostri avversari, anche se punta molto sul nostro gioco».

Si diceva che la Roma non potesse giocare senza uno con i piedi di Szczesny…
«Lui mi ha insegnato qualcosa, sotto questo aspetto. Szczesny è un tipo spavaldo, che non ha paura di fare certe giocate. Ma io ero bravo con i piedi fin dai tempi della Primavera dell’Internacional».

Le differenze tra Di Francesco e Spalletti?
«Sono due allenatori che dimostrano sempre voglia di vincere. Mi sono trovato bene con Spalletti, anche se non ho giocato tanto. E mi piace molto il metodo che ha portato Eusebio (lo chiama proprio così, ndr). L’allenatore, comunque, è il boss e io devo fare il lavoro che vuole lui. Penso che con il nuovo tecnico siamo sula strada giusta: la difesa è migliore dello scorso anno. Abbiamo cambiato anche la mentalità, Eusebio ha sistemato qualcosa».

Uno lo chiama Spalletti, l’altro Eusebio: perché?
«Non ci ho fatto caso, allora dico mister per entrambi. Per me non c’è differenza, è automatico. Il rispetto è lo stesso».

Come si trova a Roma?
«Qui sto benissimo con mia moglie e mia figlia. Mia figlia è nata qui. È romana».

Pensa di fermarsi a Roma a lungo?
«Non penso tanto al futuro, oggi sono felice qui. Io voglio lasciare qualcosa di grande a questa società, perché lo merita. Qui dentro si lavora seriamente, è da sei, sette anni che stanno facendo un grandissimo sforzo, hanno costruito un centro sportivo quasi nuovo. Ci manca solo vincere».

Ha capito come farlo?
«Con la miglior difesa. Basta vedere gli ultimi scudetti che ha vinto la Juventus. Ce l’ha fatta subendo sempre meno reti delle rivali».

Lo scontro diretto arriva in un momento di crescita della Juve e in uno di difficoltà della Roma che è appena uscita dalla Coppa Italia. C’è il rischio di andare a Torino con qualche certezza in meno?
«I risultati fanno pensare questo, ma la nostra fiducia non è cambiata. Fin qui abbiamo giocato grandissimi match, anche contro big come il Chelsea e l’Atletico. E quando abbiamo perso contro l’Inter, per 70 minuti abbiamo giocato la nostra miglior partita».

E’ già una sfida da dentro o fuori?
«Non è così determinante. C’è pure il ritorno… Sarà comunque importante in questo momento».

La Roma ha perso le ultime 7 gare a Torino.
«Lo so. Ma come non penso al futuro, non guardo nemmeno al passato. Voglio fare una partita per aiutare i miei compagni a vincere».

C’è, tra quelli incassati, un gol in cui si è sentito colpevole?
«Ogni volta che ne prendo uno, ho questa sensazione di impotenza. Poi, però, arrivo a casa e rivedo le immagini per capire se potevo fare qualcosa di diverso. Un gol brutto l’ho subito dall’Ecuador in coppa America. Con la Roma mai».

Nemmeno quello ininfluente contro l’Udinese?
«No, credo di non aver sbagliato la posizione. Un compagno mi ha detto perché non sei uscito, io a caldo cerco di non parlare di nulla, perché prima voglio rivedere l’azione. A caldo si fa sempre confusione. In quella circostanza abbiamo sbagliato il movimento che facciamo sempre. Quando arriva l’attaccante da solo sembra sempre che il portiere poteva uscire… Ma quando è una palla scoperta io non posso stare troppo avanti. Sono movimenti sincronizzati, anche nei particolari cerchiamo sempre di lavorare per perfezionarci. In questo lavoro siamo cresciuti molto negli ultimi due mesi. Noi non giochiamo sul fuorigioco, maa il movimento ti dà anche questo».

Dall’Internacional si presentò qui Falcao e fu leader nel gruppo del secondo scudetto. Il suo ruolo, dentro lo spogliatoio e in campo, può essere lo stesso?
«Una squadra vincente ha bisogno di tanti leader, non solo del capitano. Io cerco sempre di aiutare i compagni, di essere il leader della difesa, di parlare con chi è in difficoltà durante la partita. Per restare concentrati, parlo anche quando la palla» è in attacco. E individualmente, per migliorare i rapporti tra noi».

Quando il gruppo ha capito che Di Francesco vi avrebbe spinto sulla strada giusta?
«Quando, facendo quello che lui ci chiedeva, sono arrivati i risultati. Ci siamo, quindi, fidati».

Quanto conta che Di Francesco a differenza di Spalletti faccia sentire tutti titolari?
«È importante. Lo è stato per me, l’anno scorso, quando giocavo in coppa Italia e in Europa League. Quindi mi sentivo titolare pure se stavo fuori».



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