Aurelio Andreazzoli

Sette anni e mezzo da braccio destro di un certo Luciano Spalletti. Dodici a Roma, con il brivido di una finale di Coppa Italia da allenatore: quella maledetta del 26 maggio 2013 persa contro la Lazio. Oggi Aurelio Andreazzoli è un 64enne che percorre in bici le strade della Lunigiana: 160 km al giorno. Pedala, mentre racconta al telefono di Spalletti e della Roma, due angoli di cuore.

Andreazzoli, ha lavorato con Spalletti a Roma due volte: meglio la prima o l’ultima?
«La seconda è stata più difficile: ha preso una squadra in difficoltà, l’ha messa a posto subito, ha fatto risultati, che sono ciò che guardano i presidenti, e un calcio importante. L’indice di difficoltà, per tanti motivi, l’ultima volta era più alto».

Per la questione con Totti?
«E che c’entra Totti?».

Le dispiace non essere con Spalletti all’Inter?
«Non c’è mai stata questa possibilità: ne ho letto sui giornali ma non ci ho mai sperato, anche se con Luciano avrei continuato volentieri».

Allora un po’ le dispiace.
«No, dovevo chiudere già nel 2016, poi arrivò Spalletti a Roma e restai. Ma volevo tornare a casa: io e mia moglie da 15 anni siamo come due vedovi, lei e i miei figli a Massa, io a Udine, a Roma. A casa 24-48 ore a ogni visita, un mese l’estate. Ho due figli, uno di 34 anni e una di 20: me li sono goduti poco. Ora ho chiuso la valigia e sono felice».

Molti la ricordano solo per la finale persa con la Lazio.
«Mi hanno massacrato perché noi abbiamo preso un palo e loro hanno segnato su una mezza smanacciata di Lobont. Una partita orrenda, giocata male da tutte e due. Ma nessuno ricorda i miei numeri sulla panchina: la miglior difesa dopo la Juve, presi la squadra 9 punti dietro alla Lazio e le arrivammo davanti, inventai Pjanic regista, battemmo i bianconeri e creai un team che è ancora in prima squadra. Ma quello di Roma è un ambiente privo di capacità di valutazione».

Più o meno il motivo che ha fatto fuggire Spalletti, no?
«Le cose nascono con entusiasmo, poi le situazioni le deteriorano. A Roma hanno cambiato 13 allenatori in 13 stagioni. Se scappano tutti c’è qualcosa che non va. Ranieri, Zeman, Luis Enrique, Spalletti: mica gente scarsa. Non c’è oggettività nel pesare il lavoro. E gli elogi sono peggio delle critiche. Ti stendono i tappeti rossi dopo due partite: ti invitano a cena, ti chiama il politico, perdi la misura. Ci hanno provato anche con me».

Lei ha assistito anche all’esonero di Garcia.
«Rudi ha fatto 2 secondi posti, il record di 10 vittorie. Prima era Napoleone, poi lo hanno trattato come un deficiente. Vi sembra normale?».

A lei un giocatore diede addirittura del laziale…
«Osvaldo. Nella vita incontri persone leali e altre meno, ma non si può dare la stessa importanza a tutti».

Ora c’è Di Francesco: dicono sia troppo buono.
«Lo dicevano anche di me: se sei amico di tutti dicono che sei un coglione. Invece sei solo uno che fa rispettare le regole: sembravo senza polso perché abbracciavo i calciatori, ma quando li strigli le telecamere non ci sono».

Tra Di Francesco e Spalletti?
«A Eusebio voglio bene, ma con Luciano sono più amico. Nel 2009 sembrava un rapporto finito, quando è tornato invece è ripartito alla grande, con risultati oltre le aspettative. Oggi tiferò Roma. Ma anche per Spalletti: scrivetelo, che è permaloso e sennò ci resta male».

(La Repubblica – M. Pinci)



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