(Gazzetta dello Sport – M. Cecchini/A. Pugliese) Si dice che certi episodi, se li si osserva da vicino paiono tragedie, rivisti da lontano invece diventano solo commedie. Alla Roma, in fondo, sta succedendo la stessa cosa. Dopo l’addio di Luciano Spalletti, ci sono stati giorni in cui qualcuno credeva che Trigoria sarebbe diventata deserto. Salah stava per salutare, Szczesny lo aveva già fatto, Rüdiger nel giro di poche ore era diventato da perno della nuova difesa a sacrificabile pedina sul mercato. Non basta. In panchina si passava dall’innegabile genio di Certaldo (più famoso lui o Boccaccio? La sfida è aperta) all’abruzzese Eusebio Di Francesco, che viene dal Sassuolo e non tratta male i giornalisti: si può dare a lui la panchina della Roma? Macché: è pure zemaniano ed integralista. Non basta. Le settimane passavano e, al netto degli addii, gli acquisti mostravano problemi. Karsdorp doveva stare fuori 4 settimane e se ne attende ancora l’esordio, Moreno pareva un titolare sicuro e lentamente scivolava indietro nelle gerarchie, e poi le sentenze prefabbricate. Nainggolan? Non vuole più fare la mezzala. Fazio? Non può giocare nella difesa a quattro. Juan Jesus? Mai titolare. De Rossi? Non è adatto al nuovo gioco. Schick? Bravo, ma non è un esterno. Dzeko? È arrabbiato perché è troppo solo. Insomma, visto che San Totti non c’era più a dispensare miracoli, la tragedia pareva in arrivo.
MORIRE PER… – Invece la cronaca ha raccontato ben altro. Più che altro un concetto base che un calciatore (doverosamente anonimo) ci ha rivelato con spirito poetico: «Dovevamo prima “morire” per rinascere». Vero, ma sbaglieremmo pensando che sia stato solo il tempo – indispensabile – a rimettere a posto le cose. Piaccia o meno, la Roma non è più spallettiana, ma non è neppure zemaniana, visto che (Champions compresa) la squadra di Di Francesco non ha subito gol in 4 partite su 6 disputate, ed in quella di sabato, la rete dell’Udinese è arrivata a gara in ghiaccio. Il presunto integralismo dell’allenatore quindi è evaporato in fretta perché il suo 4-3-3 si è saputo modificare in 3-5-2, 4-2-3-1, 4-2-4 o 4-1-4-1 a seconda delle necessità. Certo, il tempo è servito, perché la condizione è cresciuta, aiutata però anche da un turnover spinto – 5 cambi fra i titolari nelle ultime gare – ma ragionato.
DZEKO NON PIU SOLO – Nel frattempo Di Francesco ha lavorato sull’attacco. SePerotti è l’attaccante del ricamo, El Shaarawy è chiamato a stare più vicino a Dzeko,liberando le fasce per le incursioni di Bruno Peres (o Florenzi) e soprattutto Kolarov, mentre Nainggolan è tornato libero di galleggiare tra le linee, supportando così Dzeko e, in fase di non possesso, diventando l’uomo del primo pressing. Risultato: il bosniaco ha già segnato 6 gol in 5 partite di campionato e la squadra ne ha realizzati 10 nelle ultime 3. Che qualcosa sia cambiato, poi, lo dimostrano i tocchi di palla. Nelle prime gare chi «guidava» era l’esterno basso (più spesso Kolarov, una volta Florenzi), da due gare invece i palloni giocati passano di più per il centrale della mediana (Gonalons o De Rossi). Da notare un’altra curiosità: se il turnover (Alisson a parte) tocca tutti, c’è un ruolo in cui le sfide sono allargate: l’esterno destro d’attacco, dove si sono alternati ben in 6 (Defrel, Under, Perotti, El Shaarawy, Schick e Florenzi). Morale: adesso la Roma di Di Francesco, 5 match di A disputati, ha due punti in più rispetto a quella di Spalletti di un anno fa (12 contro 10). Che commedia se alla fine lottasse per lo scudetto…
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