Così va riscritto daccapo sul nuovo progetto. Con la scoperta ulteriore di un nulla osta paesaggistico sfornato nel 2014 dalla direttrice dei Beni culturali del Lazio Federica Galloni, addirittura opposto rispetto a quello firmato da Eichberg.
Dunque quel meccanismo del parere unico statale, introdotto per velocizzare l’iter burocratico finisce per complicarlo allungando i tempi, con buona pace del presidente della Roma, James Pallotta, che ha fissato nel 2020 il termine ultimo per vedere giocare il suo club a Tor di Valle.
Si dirà che di fatto si tratta solo di un piccolo intoppo, peraltro l’ennesimo. E che la cancellazione del vincolo ormai data per scontata (considerando che nel primo parere unico, ora da rifare, già lo Stato aveva contraddetto se stesso), cioè l’elemento più tosto da scardinare, rappresenta un grosso passo in avanti per chi vuole vedere realizzata l’opera. In realtà, però, il groviglio della burocrazia è ancora più intricato di quanto chiunque abbia potuto immaginare.
Per esempio, c’è la questione della sicurezza, che rischia di avere il ruolo di protagonista assoluto nella vicenda. Secondo la nuova delibera che la prossima settimana entrerà in Aula per conquistare l’interesse pubblico, le vie di afflusso e deflusso dal quadrante sono quasi due, nel senso che è prevista la bretella via Ostiense-via del Mare più il ponte dei Congressi. Ma quest’ultima opera è ancora incagliata nella relativa Conferenza dei servizi.
Già nel 2014, con il ponte di Traiano disegnato sul progetto Marino, l’allora prefetto Giuseppe Pecoraro aveva puntato il dito proprio sulla viabilità alludendo alla gestione delle emergenze e citando il caso Valmontone, l’outlet rimasto chiuso fino all’adeguamento a standard di sicurezza. Adesso il prefetto è cambiato, c’è Laura Basilone, ma i paletti sono rimasti gli stessi. E i requisiti della delibera sarebbero ad oggi insufficienti, troppo poco per una zona chiusa, ritagliata in un’ansa del Tevere. E forse è per questo che ciò che non sta sulla delibera, il ponte di Traiano, lo si ritrova sulle planimetrie che dal 25 maggio circolano tra i consiglieri grillini.
Più si va avanti e più la vicenda sembra dunque ingarbugliata. Una matassa fatta di burocrazia ingolfata, di attriti istituzionali, di ribaltoni politici, di assessori che saltano e di polemiche, l’ultima delle quali ha portato alla sospensione dal M5S della resiliente «berdiniana» Cristina Grancio. La quale – con particolare riferimento alla triangolazione tra l’antico proprietario dei terreni Gaetano Papalia, il compratore e costruttore Luca Parnasi e il finanziatore-creditore Unicredit – in Commissione ha posto rilievi proprio sulle contorsioni di un iter iniziato a dicembre 2014 con Marino. La bolla di pubblico interesse sulla delibera 132 era la prima pietra virtuale della nuova arena giallorossa.
E per arrivarci c’era voluta la grande spinta di Marino ai suoi uffici comunali e, prima ancora, una trattativa serrata all’interno dell’allora maggioranza Pd. Ci fu anche un pranzo in terrazza Caffarelli dopo il quale Pallotta e Marino decisero di rispondere alle richieste dei dem del Campidoglio irrobustendo il progetto con ulteriori opere pubbliche per fugare il sospetto della speculazione: lì l’investimento toccò quota 330 milioni di euro, cioè 270 tra ponti, svincoli e depuratori più una «fiche» di 50 milioni per la Roma-Lido, la linea ferro più malandata d’Italia. Sembrava l’inizio. Sì, del calvario. Perché mentre andava avanti l’analisi geotecnica di Tor di Valle, il dossier stadio era oggetto di un rimpallo tra Comune e Regione: documenti incompleti, pareri discordanti e analisi fatte a metà, altri mesi buttati in scartoffie fino all’estate dello scorso anno.
Quando cioè in Campidoglio arriva Virginia Raggi, sindaca che da consigliera M5S si era battuta come poche contro l’operazione stadio. E la presenza in squadra di Paolo Berdini all’Urbanistica non lasciava presagire niente di buono per i proponenti dell’opera che, al netto della quiete negli incontri istituzionali, oltre al no politico della maggioranza M5S incassava quasi subito pure il no degli Uffici capitolini, lo stesso che ha portato lo scorso 5 aprile alla chiusura con esito negativo della Conferenza dei servizi. Il parere non favorevole elaborato i primi di febbraio, del resto, combaciava con la posizione di Berdini secondo cui l’assenso allo stadio era da concedere solo a patto che il progetto rientrasse «nei 63mila metri quadri del piano regolatore, non uno di più». E non è un caso quindi che, a metà febbraio cioè poco prima che saltasse fuori l’accordo politico tra proponenti e Raggi da cui il progetto stadio è rinato dimezzato nel cemento, la prima testa a cadere sia stata proprio quella di Berdini: intercettato a sua insaputa da un cronista de La Stampa l’assessore avanzava sospetti nel rapporto tra la sindaca e il suo capo segreteria, Salvatore Romeo. Dimissioni, arrivo del nuovo assessore all’Urbanistica Luca Montuori e iter che riprende, stavolta sostenuto dal M5S e osteggiato dal Pd che l’aveva prima sostenuto, in una atmosfera politica capovolta. Ma ormai non c’è da stupirsi.
(Corriere della Sera)
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