«Sto malissimo», confessa con un filo di voce. «I giornalisti mi assediano, ce li ho tutti qui sotto casa, ho dovuto staccare il cellulare e chiudermi dentro, senza più neppure la libertà di uscire a prendere una boccata d’aria», si sfoga. «La verità è che mi vergogno. Ho combinato un casino, provocato un danno non solo a me stesso, quello ormai mi interessa poco, ma a Virginia e a una squadra che proprio non lo meritava. In tarda età scoprire di essere un perfetto idiota è davvero un brutto risveglio».

Non cerca attenuanti, Berdini, non si aggrappa più a smentite impossibili. Adesso vuole solo silenzio. Scomparire. «Far abbassare la polvere», dice. Accogliendo quasi con sollievo la notizia che Raggi ha già cominciato il casting per individuare il suo successore: «Almeno così finisce l’agonia, sarebbe forse la soluzione migliore», riflette ad alta voce, «tanto probabilmente fra un mese mi avrebbero cacciato lo stesso, dopo la fine della trattativa sullo stadio della Roma, che loro vorrebbero chiudere in un modo e io in un altro».

Ma questo è l’ultimo dei suoi pensieri, ora. Il tempo delle parole è consumato. Svanita ogni verve polemica, che pure lo ha reso famoso. Come se le colate di cemento, che lui ha combattuto per tutta una vita, gli si fossero appiccicate addosso e lo stessero portando a fondo. «Sto male, male, male», cantilena, «non riesco a farmene una ragione: mi sono messo il cappio al collo da solo».

Ricominciando daccapo a srotolare il nastro della notte in cui si è lasciato andare: «Quel giorno, era un venerdì, mi sono svegliato all’alba, sono partito per Bologna, ho tenuto una conferenza, all’una ho ripreso il treno e sono arrivato a Roma alle quattro. Dopodiché sono andato a quella faticosissima assemblea nella sede dell’VIII municipio, durata quattr’ore. Una volta finita, era tardi, un assessore cinquestelle mi ha presentato ‘sto ragazzo. Nonostante fossi molto stanco, abbiamo cominciato a parlare. Lui non mi aveva detto di essere un giornalista. Mi ha fatto un mucchio di domande. E io mi sono abbandonato, riportando come un coglione dei pettegolezzi. Solo alla fine mi sono insospettito. E lui ha ammesso di fare il precario alla Stampa. Mi ha preso per sfinimento. Giurandomi che non avrebbe pubblicato nulla».

E invece, cinque giorni dopo, la bomba ad orologeria deflagra. Ferendo a morte la sua carriera politica. E la sua proverbiale voglia di lottare. «Sono senza forze», confessa. Persino l’appello alla sindaca Raggi affinché respinga le sue dimissioni, firmato ieri da una ventina di intellettuali, gli giunge come un’eco lontana. Sta su un altro mondo, oggi. «Adesso voglio solo riposare».

(La Repubblica – G. Vitale/S. Batezzaghi)



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