Che uno le formazioni se le sogni di notte, che se le studi come fossero materia d’esame o che se le inventi per pura emergenza, resta il fatto che le tre squadre migliori che abbiamo — Juventus, Roma, Napoli — non sono uguali a quella immaginate in estate, non collimano con i progetti del mercato e in qualche modo rappresentano dei piccoli tradimenti. Ribaltando però la frittata, Allegri, Spalletti e Sarri ci stanno insegnando come sia raffinata l’arte dell’adattamento (che per altro è la stessa che sta consentendo a Conte di dominare la Premier), di quanto importante sia essere elastici, anche resilienti, di sicuro creativi.
Nella domenica che «ha spaccato in due la stagione», la Juve ha imboccato la strada che Allegri indicava da un pezzo, ma nella quale non aveva mai avuto dav- vero il coraggio di buttarcisi, rimanendo ancorato a qualche remora ma anche al- la mentalità della vecchia guardia, se- condo la quale la Juve era per indole una squadra, come raccontava Chiellini, «da 1-0, non da 6-2 come il Real Madrid». Allegri cerca il compromesso tra i due estremi: un bilanciamento delicato, vulnerabile ma possibile tra qualità ed equilibrio. Il lavoro estivo era stato impostato sul consolidamento del 3-5-2, dopo che per due anni l’allenatore non aveva ricevuto gli uomini per evolvere nel 4-3-1-2, ma alla fine ha deciso di svoltare lo stesso individuando la formula più rischiosa però più affascinante.
Italianismo è anche questo. Spalletti è sempre stato il meno “italiano” dei nostri allenatori, ma l’esperienza all’estero ne ha evidentemente attenuato l’eresia, riportando a fior di pelle il codice genetico. L’uomo che importò il 4-2-3-1 e il falso 9 (Totti) oggi è diventato uno speculatore, gioca al risparmio, bada al sodo: gli anni in Russia gli hanno insegnato a non vergognarsene, prima invece qualche pudore ce l’aveva. La sua Roma è incompleta e imperfetta, e la formula di partenza (trequartisti a profusione, difesa alta e i terzini a spingere) regalava bellezza ma acuiva sia l’incompletezza sia l’imperfezione. Fino al 30 ottobre era la squadra che segnava di più in serie A, ma da quella domenica (0-0 a Empoli) è divenuta quella che incassa di meno: la guarigione di Rudiger, grande ed eclettico difensore, è stata il pretesto per una trasformazione tattica che ha indirizzato quella mentale: Spalletti ha insegnato alla Roma a essere paziente, ad aspettare il momento, a sfruttare i talenti versatili che ha, in particolare quello di Nainggolan. La partenza di Salah per la Coppa d’Africa è stato un ulteriore giro di vite difensivo, e chissà cosa accadrà quando tornerà. In un certo senso sta facendo il percorso inverso di Allegri, ma per entrambi la ricerca del meglio non poteva che andare in questa direzione.
Sarri non ha invece cambiato filosofia (se non cedendo alle necessità del turn over, prima abiurato), ma ha dovuto ritoccare perché prima ha perso Higuain e poi Milik. Nel suo caso, non si è trattato di cambiare modulo ma schemi: ha tagliato di netto coi cross, ha ideato Mertens regista offensivo e ha messo le due ali in connessione diretta una con l’altra, cosicché ora è frequente che Insigne mandi in porta Callejon e viceversa. Ma l’idea di calcio, basata sull’armonia quasi musicale dei movimenti, è rimasta intatta: Sarri il codice genetico dell’italianista non ce l’ha.
(La Repubblica – E. Gamba)
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