ULTIME NOTIZIE AS ROMA CAPELLO – «Lei mi conosce da tanti anni e sa come sono: non mi piace voltarmi indietro. Si vince, si fa festa e si pensa al prossimo traguardo». Fabio Capello – intervistato da La Gazzetta dello Sport – alza la mascella da imperatore e ringhia il suo modo di essere, ma il sopraggiungere del ventennale dell’ultimo scudetto della Roma – 17 giugno 2001 – non lo lascia indifferente, facendogli dismettere per un po’ le vesti di opinionista principe di Sky all’Europeo, per raccontare quella stagione formidabile.
La prime sensazioni che ricorda di quel giorno?
«Rabbia e gioia, ma anche tristezza. La rabbia, giusta, per quell’invasione di campo a pochi minuti dalla fine della partica col Parma, che ci poteva far perdere la partita a tavolino. Pensi se uno avesse dato un colpo a un giocatore che cosa sarebbe successo. Poi, la felicità, certo, ma ricordo anche tanta tristezza. Non mi era mai successo – e non mi sarebbe accaduto mai più – di non festeggiare tutti insieme con squadra e dirigenti. Mi ricordo che chiesi di prenotare un ristorante o un hotel per stare insieme, invece non si fece nulla. Ognuno per conto suo. Ricordo che passai con lo champagne prima a casa di Montella, poi a quella di Emerson, ma non fu lo stesso. La cosa più brutta nel giorno più bello».
Più forte quella Roma o il Milan degli Invincibili?
«Bisognerebbe giocarla adesso e vedrebbe come sono tutti acciaccati… (ride). Una cosa è certa: quella Roma vincerebbe lo scudetto. In Serie A c’erano i calciatori più forti del mondo e una concorrenza elevatissima».
C’è stata un punto di svolta che ha cambiato la stagione?
«Gliene dico due: il pari di Torino con la Juve che ci inseguiva, ma anche la sconfitta con l’Inter a inizio campionato. Tornai nello spogliatoio e dissi alla squadra: “Potete prendermi per matto, ma se giochiamo così vinceremo lo scudetto. Ricordatevi di queste mie parole”. E andò così».
Il presidente Sensi?
«Un grande, sia lui che la sua famiglia. Sapeva ascoltare. Con Batistuta costruimmo la squadra per vincere e lo facemmo. Fu davvero una vittoria corale».
Con Totti, Samuel, Emerson…
«Lasci perdere. Vogliamo parlare di come giocava a calcio Francesco? Quello fu un successo di gruppo, in cui ognuno portò il proprio mattoncino. E quelli che giocavano meno, da Guigou a Di Francesco, forse sono stati più importanti degli altri».
Partendo da quella squadra, avrebbe mai immaginato che in vent’anni la Roma non avrebbe più vinto uno scudetto?
«Mai. Ho ancora il rimpianto per la stagione successiva. Se non avessimo pareggiato col Venezia retrocesso, avremmo potuto rivincerlo subito».
Sul mercato foste ad un passo dal prendere Buffon e Cannavaro. Avreste aperto un ciclo.
«Tempo perso. Il passato non si può discutere con quello che avevamo in mente di fare».
Fu anche la stagione delle frizioni con Montella: s’immagina ci fossero stati i social?
«Non ci voglio pensare; ora è un altro mondo. Ciò che contava era che Vincenzo giocava e segnava. E comunque fu tutto ingigantito, perché cose del genere succedevano in tutte le squadre».
Ci dica il bello e il brutto del vincere a Roma.
«Il bello è la grande gioia collettiva, perché è una piazza dove si vince poco. Quell’anno, poi, fu tutto amplificato anche dal fatto che avevamo tolto lo scudetto alla Lazio. Il brutto, invece, è che si fa festa per sei mesi, mentre in altre parti – dopo la felicità – metti tutto da parte e hai voglia di vincere ancora».
Arriva Mourinho: per la Roma può essere il nuovo Capello?
«Glielo auguro. L’ho sempre ammirato. Mi piace, ha le idee chiare, sa leggere le partite e ha coraggio. Poi, come sempre, c’è bisogno di bravi calciatori».
Le piacciono i Friedkin?
«Mai conosciuti, ma mi sembrano delle persone serie, che parlano poco e fanno i fatti».
Ci pensa mai alla parabola del suo amico Baldini? Prima la gloria come d.s. eroe dello scudetto, poi la “damnatio memoriae” come consigliere di Pallotta, con Totti che nella autobiografia lo ha criticato pesantemente. Il calcio è anche questo?
«Io guardo ai fatti. Oltre che a Roma, è stato con me nel Real Madrid e nell’Inghilterra, lavorando bene. Poi ognuno esprime la propria versione e allora bisognerebbe capire quale sia la verità». Vent’anni dopo, è il modo gentile per dirci: basta così.
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