(Il Tempo – E. Menghi) Ma quale sogno, questa è realtà. Sì, fa sognare, ma è tutto vero. Nessun pizzicotto al risveglio. E non ci crede nessuno, 57mila persone ad assistere, senza saperlo, a una notte magica. Venuti allo stadio con poche speranze in tasca assieme al biglietto acquistato prima del 4-1 del Camp Nou e col pensiero già al derby che da queste parti vale una stagione. Non ieri, non stavolta.
La stagione più incredibile i giallorossi la giocano in Champions League e l’artefice del capolavoro è un novellino, l’allenatore venuto dalla piccola Sassuolo e chiamato a fare il grande salto in una «big», per la prima volta in carriera. Si è ritrovato nel grande palcoscenico a fare i conti con gli «squadroni» invincibili che in Europa comandano da anni, ma ha sfidato in primis se stesso e ha fatto un’opera d’arte. Si è ritrovato in un girone di ferro, ne è uscito da primo in classifica contro ogni pronostico, mandando fuori l’Atletico Madrid e segnando 6 gol al Chelsea tra andata e ritorno. Poi lo Shakhtar, ottavi di finali tiratissimi, decisi dal gol di Dzeko nella capitale. Ancora lui, Edin, nella notte per milioni di occhi lucidi, ha fatto una partita fuori dal normale, messo in ombra Messi e trascinato la Roma verso il miracolo. Barcellona eliminato ai quarti, lo può scrivere con fierezza Di Francesco nel suo curriculum da «principiante» in Champions League.
Erano giorni che pensava a come fermare i blaugrana, non l’aveva nascosto alla vigilia della gara sbagliata con la Fiorentina e non ci ha dormito la notte dopo il ko in campionato: «Fino alle 5 del mattino ho pensato bellino il 4-3-3, ma non basta. Ho cercato una soluzione, ho corso un rischio, se fosse andata male mi avreste ammazzato… Io sono un pazzo». In questi casi si dice genio: «Raccogliamo i frutti di un grande lavoro, è il giusto premio, io mi prendo i complimenti come le critiche, ma guardo avanti. Ora dobbiamo avere l’obiettivo di credere nella finale di Kiev, perché no? Non dobbiamo accontentarci, ma crederci». Il tecnico va oltre le aspettative e supera i suoi paletti sul modulo abbandonato per una notte per dare spazio ai sogni: «Non è l’assetto tattico a fare la differenza, ma la mentalità ed è quella su cui abbiamo lavorato. È nata una filosofia, non un sistema di gioco e i ragazzi l’hanno sposata in pieno». Ne ha beneficiato Schick in particolare: «Ho fatto questo sistema di gioco per aiutarlo: è stato quasi perfetto e sono contento per lui. Io festeggerò con la mia famiglia, a casa tranquillo, sperando di festeggiare qualcosa di più importante in futuro. I ragazzi lo hanno fatto nello spogliatoio, lì dentro ci credevamo veramente».
Hanno combattuto come se si partisse dallo 0-0. Di Francesco ha lasciato un’impronta, su questa sfida incredibile, sulla storia di questo club, davanti agli occhi di Pallotta, sbarcato appena in tempo per vivere dal vivo la remuntada. La Roma vive la crisi del gol tutto l’anno, in Champions si scopre fenomenale davanti e fa 3 gol ai più forti, presentandosi in campo con Dzeko e Schick, vicini ma non troppo, finalmente al posto giusto (Patrik, soprattutto). E la Roma in semifinale di Champions nel giorno, il 10 aprile, in cui 11 anni fa all’Old Trafford fece una figuraccia rimasta scolpita nella storia degli incubi giallorossi. Da quel 2007 ad oggi c’è stata un’evoluzione che non può non essere apprezzata, e lo ha potuto fare anche un certo Sir Alex Ferguson in tribuna. Ma gli applausi a scena aperta ieri sera erano tutti per il signore seduto in panchina, chapeau Di Francesco
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