L’appuntamento è insolito: ore 22.30 nella lobby del Parco dei Principi, dove tante squadre di calcio alloggiano quando giocano allo stadio Olimpico. Toninho Cerezo spunta fuori dall’ascensore e ha lo sguardo severo, quasi corrucciato. Ma dentro si diverte ancora con la vita e lo chiarisce subito: «Mi faccia solo il favore di scrivere una cosa: “Cerezo è ancora bello come il sole”». E scoppia in una risata, la prima di tante in un’ora di chiacchiere. Cerezo è tornato a Roma dopo nove anni e anche stavolta per la Roma: allora per la festa degli 80 anni, in questo caso per essere accolto nella galleria delle leggende, la Hall of Fame. Lo accompagna il figlio Gustavo, che parla un perfetto italiano con l’accento genovese, mentre Lea, la figlia che si chiamava Leandro, è in Brasile: «Aveva un impegno, peccato. Ma io sono orgoglioso, sia di Leandro che di Lea. Se ha deciso di cambiare sesso ed è felice, io da padre sono felice per lei».
Che emozione è entrare in una Hall of Fame?
«Indescrivibile. Per me è stato già un enorme privilegio vestire la maglia della Roma. Vorrà sapere dei miei ricordi più belli: io le dico che ogni giorno con quella maglia addosso è stato speciale, perché rappresentava una responsabilità verso un popolo. A Roma sei parte di una comunità. E solo se la vivi la capisci fino in fondo».
Tre anni alla Roma, tra il 1983 e il 1986. Una Coppa Campioni e uno scudetto sfiorati, sempre in casa.
«Ma abbiamo vinto due Coppe Italia. Poi purtroppo c’era Eriksson e sono dovuto andare via. Eppure una soddisfazione con quel simpaticone (non dice proprio così, ndr) me la sono tolta: nell’ultima partita, la finale con la Sampdoria, mi stuzzicò facendomi entrare per pochi minuti. Io segnai, salutando i tifosi con un giro di campo».
Torniamo a Roma-Liverpool. E al rigore non tirato di Falcao.
«Io a questa storia non ho mai creduto. Per me Paulo Roberto avrebbe calciato il quinto. Ma con lui non ne ho mai parlato: troppo dolorosa quella partita».
Due anni dopo, Roma-Lecce. Partita assurda ma regolare?
«Sì, sicuro. Conoscendo i miei compagni nessuno si sarebbe mai venduto uno scudetto. Io però non giocai perché ero squalificato».
Quella Roma sembrava maledetta.
«La definirei sfortunata, se penso anche agli incidenti di Ancelotti. Calciatore intelligente ma non l’avrei mai visto come allenatore: non parlava mai…».
Per lo scudetto ha dovuto trasferirsi proprio alla Sampdoria.
«Destino strano. Dovevo andare al Milan in realtà. Avevo firmato già un contratto di due anni, avrei guadagnato molto di più, ma una clausola mi tradì: c’era scritto che l’accordo sarebbe stato nullo se non avessi giocato il Mondiale ’86. E io fui scartato all’ultimo momento dal ct Santana».
Come avete fatto a vincere con la Samp?
«Mantovani, come Viola, era un artista del commercio e costruì la squadra con pazienza, con i giovani italiani, integrandola anno dopo anno con qualche calciatore esperto: come me e Briegel, per esempio. Alla Samp resto molto legato, lì vive ancora buona parte della mia famiglia».
Lei ha smesso di giocare a 40 anni, come Totti.
«Ma lui può andare oltre. La medicina sportiva di oggi è migliore rispetto a 30 anni fa. Non sarei sorpreso se continuasse».
Intanto il giovane brasiliano Gerson si affaccia alla Roma.
«E’ quel mancino del Fluminense, giusto? Bel piede, gran fisico. Penso possa farsi valere in Italia. Ma mi permetta di dire una cosa: io per la mia epoca non ero un fuoriclasse. Eppure se vedo i centrocampisti di oggi, posso affermare che sapevo giocare a calcio…».
Che farà da grande, Cerezo?
«Aspetto di tornare ad allenare. Ho lavorato tanto in Giappone, vediamo».
Ha imparato il giapponese?
«Figurarsi. Non parlo nemmeno l’italiano…».
Ultima domanda, ricordando il dubbio sollevato dal film cult Vacanze di Natale del 1983. Dove passò quel capodanno Toninho Cerezo?
«A casa, con la famiglia. A dormire, perché ero un professionista». E’ l’ultima risata, la più bella.
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