AS ROMA NEWS MOURINHO – Cinematografo Mourinho. Non chiude mai. Tra la conferenza stampa di sabato e il manicomio di domenica all’Olimpico, l’illusionista di Setubal ha aggiunto un altro capitolo al suo show permanente sopra e sotto la panca, «venghino signori venghino». Oh, sia chiaro, prima che José s’incazzi e mi parta con l’occhio del cobra, lo dico con tutta l’ammirazione possibile, di uno che ha passato la giovinezza a estasiarsi tra il circo Togni e i cine d’essai, a vedere i film di Glauber Rocha in lingua originale e a organizzare la notte a casa sua maratone a tema, tutto Stanley Kubrick o tutto Luis Bunuel, per maniaci della celluloide e divoratori di pop corn, scrive La Gazzetta dello Sport.
José Mourinho, sempre lui. Ventiquattr’ore antologiche di tutto il meglio e il peggio dell’uomo che da più di trent’anni domina la scena del calcio mondiale, incluso l’ottovolante di umori e di amori, la voglia di amarlo e quella di ammazzarlo, riedizione del dilemma ovidiano che oggi divide la piazza romanista: non posso vivere con lui e nemmeno senza di lui.
Lui, José, nella parte del Mago di Oz, l’Incantatore di Folle, passando per Black Macigno alias Lukaku, detto anche Black Mamba in omaggio a Kobe Bryant, altro celebre cecchino del canestro a tempo scaduto, toccando Peter Pan Dybala e i suoi numeri da prestigiatore, appena reduce dalla felliniana genuflessione alla Fontana di Trevi con offerta nuziale ai piedi della sua Anita alias Oriana, in tribuna domenica all’Olimpico, la bellissima modella argentina che adora i cadaveri. Una trama, la partita di domenica con il Lecce, tra infarto, depressione e sbornia di felicità, tra “Il mucchio selvaggio”, i cinque minuti finali, e “Melancholia”, il penultimo quarto d’ora, tra mezzo litro di Chianti e due pillole di Prozac.
Partiamo da sabato, la conferenza stampa di presentazione della partita. Da applausi e pernacchie a scena aperta. La prova ennesima che José, checché se ne dica, è un pessimo comunicatore. In compenso è uno straordinario ipnotizzatore. Ai livelli per capirci di Cesare Gabrielli, il mago toscano dell’«A me gli occhi», che stregò tra gli altri personaggi del calibro di Dino Buzzati e Vittorio de Sica.
Sta di fatto che io, come gran parte di voi, sono uscito dal suo exploit verbale di Trigoria davvero convinto che battere in casa il Lecce dei Baschirotto e degli Strefezza sarebbe stata un’impresa pressoché epica. Una roba da titani. Salvo poi, il giorno dopo, leggere le formazioni, metterle a confronto, vedere l’Olimpico in versione bolgia, e risvegliarsi di colpo dal sortilegio. Demonio d’un Mou, ci hai fregato ancora una volta!
Grande illusionista e pessimo comunicatore. Pessima uscita da ogni punto di vista il «Ma secondo voi i Dybala e i Renato Sanches sarebbero qui senza una storia clinica alle spalle?». Strike. In un colpo solo, José ha abbattuto i calciatori suddetti (bollati come “cagionevoli” a vita), la piazza romanista (buona solo per accogliere ex o derelitti) e se stesso (che in questa piazza c’è comunque finito e vai a capire allora: non essendoci alle spalle una storia clinica e forse nemmeno cinica, si tratta allora di una storia ciclica, ovvero declinante?).
Per non dire del linguaggio del corpo e della mimica del volto (tra l’annoiato, il cupo e lo smanioso, salvo rare affettuosità con domandatori compiacenti) o quando replica la gag all’angolo del «quante domande ancora?», risultando nel migliore dei casi insofferente per non dire sprezzante. E Mou è troppo intelligente per non sapere che in questi casi conta l’effetto, non l’intenzione. Chi se ne frega delle intenzioni. Disastroso anzichenò anche il continuo ribadire i limiti tecnici, clinici o numerici dell’organico, per esaltarne in compenso l’afflato o l’empatia. Calciatori a questo livello si candidano per un eventuale Pallone d’oro o comunque di bronzo, non per una parte in un romanzo deamicisiano. “Generoso” negli effetti di comunicazione è quasi sempre associato al significato di “brocco”.
L’Incantatore di Folle torna alla grande il giorno dopo nel suo ambiente naturale, lo stadio. Sei lì a cinque minuti dalla fine che ti dici disgustato: «Basta Mourinho, al rogo Mourinho», sei lì strabiliato al cospetto di quei sessantamila, uomini, donne, bambini, ancora invasi dalla fede, che si trattengono dal fischiare e dallo smadonnare, che sembra tutto uno stramaledetto copione già scritto, incluso quel Falcone che para tutto per amore della Roma come per dire: «Cavolo, ma che altro vi serve ancora per capire che io mi vedo solo in giallorosso?» (già cosa aspetta la Roma a prenderselo un portiere così e fargli un contratto a vita?) e tutto si ribalta all’improvviso.
E il persiano fin qua misconosciuto diventa un mito, l’unicorno bianco, per non parlare di Black Macigno che apre il compasso all’ultimo secondo. La depressione diventa orgia e tutti che sbaciucchiano tutti a cominciare da José Mandrake che bacia sul collo il suo Lothar, metà amoroso e metà vampiro, e bacia chiunque, persino Aouar. E tu, che fino a quattro minuti prima lo volevi in viaggio per qualunque altrove, ora ti scopri che lo vuoi incatenare alla panchina. Perché con lui, maledizione, l’Olimpico è un happening a tempo pieno. E perché tu, alla fine, è solo quello che vuoi, l’emozione forte.
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