Eusebio Di Francesco

(La Repubblica – M. Pinci) La partita perfetta della Roma ha una data di nascita e una di concepimento. Ma se la prima è già entrata nella storia romanista, riscattando il 10 aprile dal ricordo del 7-1 di Manchester, anche la fecondazione è figlia di una sconfitta. Quella di sabato con la Fiorentina. Il giorno dopo, al termine dell’allenamento, l’allenatore ha telefonato al ds Monchi per dirgli: «Ho deciso, cambio modulo, giocherò con il 3-4-3». A qualcuno pareva pazzo, ma Di Francesco, il papà dell’impresa, si era fatto un’idea studiando le partite del Barcellona. Contro il Chelsea a Londra, per la prima volta nella stagione, Messi e compagni avevano faticato a gestire il possesso palla scendendo sotto il 60%: la squadra di Conte aveva giocato con un 3-4-3 in cui i due attaccanti esterni avevano soffocato le fonti del gioco del Barça. Una mossa ripetuta a sorpresa dalla Roma: Nainggolan e Schick a raddoppiare su Rakitic, Busquets, Iniesta. Mettendo in campo ancora più fame agonistica, più convinzione. Possibile, dopo aver subito 4 gol al Camp Nou? Possibile, se il tuo allenatore, dal giorno dopo quella serata «sfortunata» ( così la definì Pallotta), aveva iniziato a ripetere ossessivamente a tutti le proprie convinzioni: girava per Trigoria, dalla mattina dopo, ripetendo a magazzinieri e calciatori «dai che è aperta, dai che ce la giochiamo». Tra i calciatori ha attecchito lentamente, finendo per conquistarne testa e cuore, convincendoli a interpretare alla perfezione un nuovo modulo provato di fatto soltanto una volta, ad appena 24 ore dal match. Ma già in Catalogna la squadra aveva giocato con un furore nuovo: merito pure dei titoli provocatori di qualche quotidiano catalano, che aveva definito il sorteggio della Roma «un cioccolatino» per il Barça. Quella prima pagina ha girato sugli smartphone dei calciatori, subito dopo la pesca nell’urna di Nyon. Nainggolan l’ha indirettamente ricordata ba caldo, durante la festa nello spogliatoio, in un video in cui si sfogava: «menomale che eravamo scarsi» , scivolando poi in una nuova bestemmia che non potrà non irritare il club. Ma negli ultimi giorni la dirigenza al completo aveva aumentato le conversazioni con la squadra: «Non abbiamo niente da perdere, giochiamocela», il messaggio ripetuto perché normalizzasse l’idea di un’impresa senza precedenti. Il ds Monchi e l’ad Gandini, già negli spogliatoi del Camp Nou avevano iniziato l’opera motivazionale: «Ragazzi, basta fare tre gol, li avete già fatti al Chelsea, non è impossibile», sussurravano alle orecchie della squadra distrutta da una sconfitta che non sentiva di meritare. Durante una cena, a qualche compagno Dzeko ha fatto un ragionamento simile: «Andiamo in campo ragazzi, poi vediamo che succede…» . E in campo è stato proprio lui a incanalarla, con quel gol dopo 6 minuti che ha mandato il Barça in panne, poi procurandosi il rigore che ha fatto svoltare la partita. Un rigore segnato da De Rossi, dando seguito al discorso dello spogliatoio: «I tifosi ci credono, perché farcela addosso?» . Lo hanno lasciato fare al Barcellona. Anche se il presidente Bartomeu era forse l’unico in tutta la Spagna ad aver fiutato prima l’aria: «Siamo una squadra strana…», aveva detto ai suoi. Iniesta lo ha capito all’intervallo: «Così va a finire che la perdiamo». Era già caduto nella trappola di Di Francesco. Che ora pensa alla finale: si giocherà il 26 maggio, giorno della coppa Italia persa 5 anni fa con la Lazio. Un’altra data da riscattare.



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