(Dagospia.com – G. Dotto) James Pallotta non sa di calcio, ma sa di uomini (e di stadi). Gli basta sfiorare con il suo pollice bostoniano una superficie umana per capire se è di cartapesta. Quando si tratta di stregoni da panchina o di bipedi calcianti tende a fidarsi. Salvo poi diffidare di chi si fida. Gli basta poco per rovesciare il binocolo. James ha dalla sua l’entusiasmante brutalità del rullo compressore. Che si chiamino Rudi Garcia, Walter Sabatini o le decine di dirigenti italiani o yankee passati per Trigoria, James quando è l’ora ti schiaccia come un brufolo prima che diventi purulento. Non si fa il segno della croce, o forse sì, prima di spianare l’equivoco.
Nel mirino ora, dopo la gita all’Olimpico, c’è già il buon Eusebio. Tanto più appassionato quanto più inadeguato. Pallotta ne sta decifrando l’inadeguatezza. E mica perché l’abruzzese gioca il 4-3-3 piuttosto che il 3-5-2. Da vero cacciatore di teste e di qualunque cosa, il boss fiuta l’inconsistenza tremula di chi gli si para davanti. Ne misura la pochezza dei suoni e l’opacità dei lampi. I balbettii spacciati per grida. Non solo lui, a dire il vero. Il guaio per l’onesto Difra è che a misurare l’inconsistenza del leader cominciano, e non da ieri sera, i calciatori, lupi di terra e di mare abituati a confrontarsi con sciamani a cazzo eternamente dritto come Spalletti, Guardiola, Mourinho. Gente come Dzeko, Nainggo, Strootman, lo stesso De Rossi, in cuor suo, onesto, leale, capace di mentire qualche volta al mondo, mai a se stesso.
Il rigetto dei calciatori è una sentenza. Non c’è scampo. Ricordate Zeman? Quando fu chiaro che stava portando la Roma allo sfascio con le sue cocciute stravaganze, smisero di giocare. Ricordate Rudi Garcia? Quando cominciò a mostrarsi debole, sazio e distratto da altro, fu sfrattato prima ancora che lui potesse rendersene conto. Nulla di subdolo o riprovevole. Questa è la parte sana dei calciatori. Rigettano chi non sta dalla loro parte o chi non ha abbastanza bastone carismatico per abbassarne la cresta. Il calcio lo fanno i calciatori. Il rigetto dei calciatori è l’anticorpo che salva una squadra. Se Pallotta imparasse a fidarsi solo di loro o di se stesso, anche quando si tratta di pallone, dovrebbe decidere oggi stesso di chiedere scusa a Di Francesco e rimandarlo in contesti più adeguati dove tentare tutta la chirurgia necessaria per cambiare maschera, voce e storia.
Ci è riuscito Allegri, l’allenatore meno carismatico del pianeta, perché non dovrebbe riuscirci lui? Ci sono tutti, ma proprio tutti, gli elementi per capire già qui e ora che questa Roma, la Roma umiliata dall’Atletico (un giorno vi racconterò la vera storia del mitologico Alisson da Porto Alegre a Trigoria), costretta a difendersi come una minus habens, e prima ancora dall’Inter con l’alibi della mala sorte e dall’Atalanta con quello della buona sorte, deve cambiare all’istante il suo conducator prima che sia troppo tardi.
Mi risulta stupefacente come, a questi livelli, i livelli di un club come la Roma, non ci si renda conto di come la prima qualità da perlustrare di un candidato sia la sua dote carismatica. Il magnete. Che può diffondersi da quattro fonti primarie, la sua storia, il suo volto, la sua voce, la sua inclinazione a giocare anche perversamente o follemente il ruolo del capo. Prendi Guardiola e Zidane (storia più volto, più voce). Prendi Mourinho (stoffa, tenebra e perversione da leader). Prendi Ancelotti (la sua storia). Prendi Spalletti (volto, voce, stoffa e follia da leader). Così Conte (aggiungi la storia). Prendi il loco Bielsa o lo stesso Zeman (vedi Spalletti). Prendi Klopp (tutto meno che la storia, meno folle, maniacale e perverso degli altri, ma straripante e messianico abbraccio che ti porta per definizione verso terre promesse). Non prendi Allegri. E’ la Juve il suo carisma.
Prendi Di Francesco. Prova ad accostarlo a un aggettivo subliminale. Non ne trovi uno. Zero. Ragazzo splendido a farci un picnic in una banda di boy scout, ma zero carisma, zero follia, zero perversione. Faccia buia e voce chioccia. Non è lupo e non è lampo. Non è suono. Le sue comunicazioni pubbliche sono strazianti. Ci dicono: “Voi pensate che io non sia all’altezza? Il guaio è che il primo a pensarlo sono io…”. E così prova a confondersi facendo la voce grossa. Ma è voce che non passa. Non è mai un titolo Eusebio. Non è mai un esclamativo. Non è mai, porca miseria, un dubbio: “ma questo è un genio o un cretino?”. Zero enigmi con Difra. Dalle sua parti non latita mai una domanda appena inquietante. Non passa con noi, come volete che passi con la scafatissima banda che dovrebbe governare? Passare da Spalletti a Difra è come passare da Yul Brinner a Cecco Adinolfi.
La unica forza è anche, a oggi, la sua definitiva debolezza. La sua idea di calcio. La Roma degli ultimi trentacinque anni, da Liedholm a Spalletti, passando per Eriksson, Zeman, Luis Enrique, Garcia, tra estasi e frane, ha sempre avuto una sua identità di gioco. Ha innamorato e straziato, ma sempre riconoscibile. Questa di Difra è una squadra senza identità e senza nerbo. Con l’unica risorsa che è l’orgoglio dei suoi campioni. Che non ci stanno a perdere. A Bergamo e contro l’Atletico la Roma si è aggrappata poveraccia allo specchio in frantumi della sua identità per salvicchiare una vittoria e un pareggio mai così mortificanti. Dov’è finito il suo calcio fluido e musicale? Nainggo, Strootman e Dzeko erano uomini squadra nel coro di Spalletti, esecutori di uno spartito. In questa Roma sono piccoli, frustratissimi titani che lottano solitari contro il mondo. Ingabbiati in un calcio che non porta da nessuna parte e non lascia altro che fatica e bava alla bocca.
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