Edin Dzeko

(Gazzetta dello Sport – D. Stoppini) A pensarci bene i loro soprannomi nascondono una sofferenza, una gioventù rubata, una qualche forma di bullismo o di discriminazione, perché cos’altro volete che sia pensare di decidere il destino di un ragazzo in base all’aspetto fisico, fino a chiudergli le porte perché «no, quello è troppo basso, è un nanerottolo, una Pulce». E quell’altro poi, «come mai potrà fare gol e disimpegnarsi tecnicamente, pare un lampione!». Già, la Pulce e il Lampione. Sembra il titolo di una favola di Esopo che non esiste o forse sì, stasera sintonizzatevi sull’Olimpico e scoprirete. Edin Dzeko è quello alto. Tanto alto che se Leo Messi volesse, stasera, potrebbe pure provare a rinverdire quel racconto a metà tra il reale e il mitologico secondo cui, lui bambino fenomeno, dribblava gli avversari passando sotto le loro gambe. Eccole qui, le facce da copertina di Roma­-Barcellona, ma lo sarebbero anche se si giocasse – e s’è giocata eh, Mondiali 2014 – Bosnia­-Argentina.

SOFFERENZE – Eccoli qui, Edin e Leo. Quando dai loro volti scorgerete un sorriso, sappiate che varrà doppio, triplo, anche di più. Sappiate che la sofferenza che c’è dietro non è augurabile al peggior nemico. Edin da ragazzo/centrocampista faticava ad accoppiare due passaggi giusti consecutivi, le stesse difficoltà che la sua famiglia aveva nel mettere insieme il pranzo con la cena, ai tempi della guerra nella ex Jugoslavia: «Vivevamo in 12 in 37 metri quadri, mio padre non c’era perché era al fronte, non sempre avevamo abbastanza cibo», raccontò un giorno alla Gazzetta. La sua gioventù l’ha passata in un seminterrato di Sarajevo, la famiglia non volle espatriare. La scelta opposta di Messi, che il 17 settembre 2000 prese un volo dall’Argentina con papà Jorge per inseguire l’oro nel pallone, neppure sognando un giorno di invertire l’ordine dei fattori diventando Pallone d’oro. La scelta fu obbligata. Il piccolo Lionel non cresceva, il dottor Schwarzstein gli promise: «Diventerai più alto di Maradona». Però la cura di ormoni della crescita costava oltre 1.000 dollari al mese, l’Argentina fu travolta da una crisi economica tale che costrinse papà Jorge ad attraversare al contrario l’oceano che suo nonno Angelo, marchigiano di Recanati, navigò alla fine dell’Ottocento. I pianti, i ripensamenti, la voglia di tornare a casa: tutto fa monte, tutto fa base, tutto porta al Leo Messi che stasera arriva all’Olimpico dopo aver segnato – sabato scorso al Leganes – la 45° tripletta della sua carriera.

TRAPPOLA – Anni Ottanta, sedici mesi di differenza, da bambini giocavano con i Masters. Oggi un Master potrebbero tenerlo entrambi su come si diventa calciatori, persino ambasciatori Unicef. Fossimo all’università, la materia sarebbe «teoria e tecnica di un gol». Messi ne ha segnati 17 negli ultimi 18 incontri di Champions, Dzeko è il termometro della felicità giallorossa: il 58% delle reti in questo torneo hanno il sottotitolo bosniaco, 5 gol e 2 assist. Leo all’Olimpico ha vinto la sua prima Champions, nel 2009. No, non è un errore: perché è la prima che sente davvero, quella del 2006 a Parigi neppure la festeggiò. Edin di Roma s’è innamorato sbattendo in faccia la porta al Chelsea a gennaio, poi a marzo ha eliminato lo Shakhtar e una settimana fa all’arbitro del Camp Nou ha mandato a dire: «Non ha avuto coraggio a fischiarmi il rigore». In 9 partite ha creato 12 occasioni da gol per la Roma, contro le 15 di Leo, uno che centra lo specchio della porta il doppio del bosniaco (22 volte contro 11). Messi però, in 9 trasferte contro club italiani di Champions, ha segnato solo in due occasioni, al Milan. Ma il problema vero ce l’ha Dzeko, che ha incrociato in campo Leo 7 volte: sei sconfitte e un pareggio. Pensa un po’: stasera non gli basterebbe neppure la prima vittoria. Servirebbe un sei al Superenalotto. O una trappola per la Pulce, di solito attirate dalle fonti luminose. Buono a sapersi, per un Lampione.



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