Edin Dzeko e Radja Nainggolan

(Corriere della Sera – L. Valdiserri) Ci sono pareggi che valgono come vittorie, perché possono fare la differenza in una stagione. La Roma trova un punto ma soprattutto fa il pieno di autostima pareggiando 3-3 contro il Chelsea una partita bellissima dove si trova prima sotto 0-2 e poi avanti 3-2. Il calcio mostrato è ancora più importante del pareggio, che comunque può essere decisivo per la classifica finale del girone. Eusebio Di Francesco, alla vigilia, aveva detto che il calciatore deve avere tre qualità: fisica, tecnica e psicologica, mettendo la corsa al primo posto. La Roma di ieri è stata completa, con un cocktail riuscito dei tre componenti. La speranza è che in futuro, con il recupero di Schick, Karsdorp, Emerson Palmieri e qualche infortunio di meno, sappia ripetersi con continuità. Ma l’importante, dopo il pareggio con l’Atletico fatto quasi solo di difesa e il 2-1 stentato contro il Qarabag, era dare un segnale forte all’Europa. E il segnale è arrivato forte e chiaro. Se la Roma non ha vinto è perché ai due draghi Dzeko e Kolarov non è riuscito a unirsi anche Nainggolan, perché sono stati persi palloni sanguinosi nei disimpegni difensivi che sono costati due gol (Juan Jesus e Bruno Peres i più colpevoli) e perché il Chelsea ha un’esperienza internazionale che gli ha permesso di non crollare sotto i colpi di Dzeko, che ha segnato un primo gol alla Van Basten (sinistro al volo su lancio lungo di Fazio) e un secondo alla Bobo Vieri (colpo di testa, su punizione di Kolarov). Il risultato di Stamford Bridge va letto insieme alla grande sorpresa di giornata.

Quando l’arbitro Skomina deve ancora fischiare l’inizio, infatti, è già successa una cosa importante: il Qarabag ha fermato sullo 0-0 l’Atletico Madrid. Poi, però, toccava ai giallorossi completare l’opera. Con una vittoria la Roma sarebbe stata praticamente qualificata, con il pareggio resta con tre punti di vantaggio sugli spagnoli. Una sorpresa è venuta anche da Di Francesco, che ha messo Gerson titolare per far riposare Florenzi. La storia di Gerson sembra una telenovela: Sabatini lo pesca diciottenne nel Fluminense, lo paga una tombola (18,9 milioni di euro), gli manda una maglia giallorossa numero 10 come se fosse l’eredità di Totti e gli inserisce una clausola nel contratto in caso di vincita del Pallone d’oro. Ma Gerson non esplode mai, finisce sempre in panchina e rifiuta un anno il prestito al Frosinone (a gennaio) e un anno la cessione al Lille; da lì viene messo in punizione e con Spalletti non si vede più. In realtà il tecnico lo aveva schierato titolare il 17 dicembre 2016, contro la Juve in trasferta, per un esperimento naufragato in 45’. Ieri non ha demeritato, battendosi con impegno. Perché la legge di Di Francesco è chiara: si deve correre. E quando staranno bene tutti si proverà quello che ora sembra impossibile.



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