AS ROMA NEWS MORTE ROBERTO RENGA – Quando si aggiunse alla redazione del Messaggero, quella del totemico Gianni Melidoni per capirci, Roberto Renga veniva da Paese Sera preceduto già da una solida fama. Erano gli anni in cui i giornalisti sportivi trattavano più o meno alla pari e senza filtri con presidenti, dirigenti e allenatori, spesso, i più autorevoli di loro influenzandone scelte e opinioni, ricorda il Corriere dello Sport.
Roberto era uno di loro. E sapeva di esserlo. Sapeva che le sue parole, i suoi articoli, pesavano. L’ego della categoria toccava all’epoca il suo apice, a volte debordando in un narcisismo ai limiti del delirante, ma era solo il perdonabile e trascurabile inconveniente di un mondo, quello dei giornali, che aveva ancora potere e centralità.
Roberto aveva anche passione, oltre che una scrittura brillante, decisamente moderna per i tempi, ancora flagellati da molti casi di “trombonismo”. Passioni documentate. Roberto aveva un filo diretto con i protagonisti del calcio (fu l’unico a cui Marcello Lippi concesse un’intervista per spiegare il disgraziato mondiale sudafricano).
Passioni esplicite. Alcune più forti di altre, la Nazionale prima di tutto, che ha seguito per anni, su cui ha scritto centinaia di articoli da inviato e libri preziosi, il suo “Perugia”, quello di Castagner su tutti, storie prevalentemente romane come la Lazio di Maestrelli e Chinaglia o la Roma di Viola, Liedholm e Falcao. Molto attratto anche dai lati oscuri del calcio, che fossero il calcioscommesse, la violenza degli stadi, fino alla tragedia dell’Heysel, 1985, che lo ispirò a scrivere “La partita del diavolo” (insieme a Chiara Bottini), l’idea non troppo romanzata che quel massacro non era stato solo una tragica fatalità.
La malattia lo aveva già aggredito quando non era preparato (chi lo è mai?) e questo gli aveva conferito una fragilità piena di grazia, sconosciuta a me e forse anche a lui stesso. Piena di grazia (e quel briciolo residuo di perdonabile ego, retaggio dei tempi) come il post postumo che ha lasciato di se stesso.
“Non posso lamentarmi. Sono stato molto amato e molto odiato. Il mio perdono a tutti meno tre”. Non sappiamo chi siano i tre non perdonabili (lo sapranno probabilmente loro), non credo che qualcuno l’abbia veramente odiato, ma certo qualcuno l’ha davvero amato. Questo, alla fine, è l’unica cosa che conta.
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