NOTIZIE AS ROMA PALLOTTA – La squadra scortata e in ritiro punitivo a Trigoria, i tifosi che minacciano velatamente e contestano, il presidente che fa mea culpa e l’allenatore nel ciclone delle critiche. La peggiore Roma americana, questo dicono i numeri: dopo 690 milioni di investimenti, la squadra è al punto di partenza, peggio pure di quella che sette anni fa con Luis Enrique iniziò disastrosamente l’età a Stelle e Strisce. Il ds Monchi ha lasciato gli spalti dopo il raddoppio di Santander, che ieri Bologna criticava e oggi invoca al grido ” che ci frega di Ronaldo”. «Nessuno è più adirato o disgustato di me» , sosteneva a fine partita Pallotta, chiamato in causa dai cori dei tifosi che gli urlavano “vattene”: ma quello del presidente suona come un ultimatum, visto che l’ultima volta lo disse dopo Roma-Spezia del 2015, gettando le basi per l’esonero di Rudi Garcia.
E sentendosi accerchiato Di Francesco non ha risparmiato nessuno: «Le figuracce mi condannano. Ora prima del modulo devo scegliere gli uomini». Se il Bologna che non aveva mai segnato ha potuto vincere 2- 0 senza mai temere di perdere, il merito è di Pippo Inzaghi, certo. Ma è pure la spia di una macchina in testa coda, capace in cinque mesi di azzerare l’Everest che aveva scalato raggiungendo la semifinale Champions e arrivando a un gol dalla finale di Kiev. Poi c’è stata l’estate: 12 acquisti e 7 cessioni che hanno lasciato un utile di mercato di 21 milioni al prezzo di una profonda, insuperabile sensazione d’incompiutezza. Come se le mani che questa Roma devono costruirla dialogassero poco con il cervello che l’ha pensata.
«Parlare di mercato sbagliato è presto » , diceva Monchi prima del tracollo bolognese. Dopo aver inseguito a lungo Ziyech, mezzala marocchina dell’Ajax, ha preso però Pastore. Ma l’acquisto da copertina è un “dieci”, l’unico ruolo non contemplato dal 4- 3- 3 su cui Di Francesco ha scelto di impostare il progetto tattico. Come se il ds spagnolo avesse in testa un sistema diverso. E poi: Cristante e Pellegrini si assomigliano fin troppo, soprattutto nei limiti dovuti dell’età. Nzonzi è un colosso abituato a giocare in un centrocampo a due, non a tre: non è De Rossi per capirci, ma nemmeno Strootman.
Diventato oggi catalizzatore dei rimpianti dei tifosi non fosse altro perché venduto a mercato chiuso, senza poterlo sostituire: sarà casuale, ma in campo c’era lui a Torino 36 giorni fa, l’ultima ( l’unica) vittoria della Roma in questa stagione. La questione è pure fisica: la squadra non corre, 15 formazioni in A hanno percorso più km. In estate sono cambiati anche i preparatori: via Norman e Lippie, voluti da Pallotta e ritenuti i responsabili della marea di infortuni. Di Francesco ha voluto Franchini, con lui al Sassuolo, un anno fa impose Vizoco, che conobbe al Val di Sangro in C2. Ora anche lui denuncia: «Siamo lenti» . Puntando poi l’indice contro qualche singolo, senza nominarlo: «Abbiamo sbagliato un gol da un metro, serve cattiveria», pensando a Pellegrini forse, o a Dzeko, ieri sera partito da solo per Milano, invitato – con delega della Roma – alla festa di uno stilista.
Leggete queste frasi: «Nel primo tempo sembrava che giocassimo un’amichevole: senza impegno, senza anima». Le ha dette l’allenatore della Roma a Bologna, non ieri ma 14 anni fa, l’ultima sconfitta al Dall’Ara: il giorno dopo, Rudi Voeller si dimise. Solo uno dei tanti, ciclici capogiri che diventano malanni, di questa squadra. In cui cambiano calciatori, allenatori, finanche dirigenti e proprietari senza che nulla cambi. Ora su Di Francesco s’allunga l’ombra della suggestione Conte: come se bastasse un nome a risolvere gli equivoci.
(La Repubblica – M. Pinci)
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