Federico Fazio, difensore della Roma, ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera commentando la storica semifinale conquistata, grazie alla vittoria sul Barcellona, contro il Liverpool in programma domani ad Anfield. «A me piace il calcio. Non solo giocarlo, ma anche guardarlo e studiarlo. Le squadre storiche: il Real Madrid degli anni Sessanta, il Milan di Sacchi, le grandi argentine che voi magari conoscete poco. Certo che so che cosa è successo tra Roma e Liverpool il 30 maggio 1984. Basta andare su un social… Però, proprio per questo, vorrei ribadire un concetto: quella di domani contro il Liverpool, ad Anfield, uno stadio storico, è la nostra partita. Siamo in semifinale di Champions League perché abbiamo lavorato duro, eliminando Chelsea, Atletico Madrid, Shakhtar e Barcellona. Niente succede per caso. Rispetto i sentimenti di tutti, ma non voglio trascinare il passato nel presente. Questa per me è una partita da giocare e da godere».
Lo sa che lei, così, dà un taglio a qualcosa che è stato molto più di una partita? Ad esempio al movimento filosofico/calcistico del «mai una gioia» che risale proprio a 34 anni fa ed è arrivato ai giorni nostri.
«Le faccio un esempio. Sono argentino e amo il tango, che trovo estremamente elegante. Le nuove generazioni non sanno nemmeno che cosa sia, ascoltano ben altra musica. Mi dispiace, perché così si perdono le radici, ma so che come non si può cambiare il passato così non si può cambiare il presente. Chi c’è c’è. E in semifinale, contro il Liverpool, ci siamo noi. Adesso e qui».
Conoscete meglio voi Momo Salah o è lui che conosce meglio voi?
«È una bella gara. Diciamo che noi lo conosciamo benissimo e che lui ci conosce bene perché è stato nella Roma di Spalletti e non in quella di Di Francesco. Detto questo, il Liverpool non è soltanto Salah. Se pensiamo soltanto a fermare lui, sbagliamo».
Ha parlato di Anfield e del suo impatto sui giocatori. Lo sa che la Roma è l’unica tra le semifinaliste a non avere il suo stadio di proprietà?
«Avere i tifosi a un centimetro è importantissimo. Uno stadio crea identità, diventa la tua casa, può fare la differenza. Anche per questo è alla base del progetto della Roma».
Roma è la Città Eterna, non ama che qualcuno le insegni qualcosa. Però nel calcio ha vinto poco e Siviglia tanto, per esempio cinque tra Coppe Uefa e Europa League. Che cosa porterebbe qui, con la bacchetta magica, dopo aver già portato il direttore sportivo Monchi?
«Con la bacchetta magica niente, con il lavoro tanto. Si parla spesso di mentalità vincente e io ho visto, a Siviglia, che è il prodotto di un gruppo che parte dai dirigenti e arriva fino ai magazzinieri. Per me è importante chiunque lavora a Trigoria, anche se poi in campo vanno undici giocatori. Roma e Siviglia si somigliano: c’è un derby sentitissimo, ci sono radio e tv locali, ci sono avversarie in campionato che hanno più soldi e più trofei in bacheca. Per arrivare in alto servono due cose: una sconfinata voglia di vincere e la continuità nei comportamenti. Non sono cose che si costruiscono in pochi giorni, bisogna saper assorbire le eventuali sconfitte, che fanno parte del calcio, senza perdere la fiducia in quello che stai facendo. Sono arrivato a Siviglia a 19 anni, catapultato dal Mondiale Under 20 che avevo giocato con l’Argentina. Ho firmato e sono partito in un giorno. All’arrivo mi ha preso in consegna Enzo Maresca, che stava sempre con me e mi riempiva di consigli utili. È stata una grande lezione e adesso, quando posso, lo faccio anch’io».
Di Francesco dice che il calciatore ideale è Cengiz Under, che non capisce l’italiano e perciò è impermeabile al famigerato «ambiente romano». È così?
«Provate voi a imparare il turco! Al di là dello scherzo, per me non è un problema gestire l’esterno: in Argentina e in Spagna è molto simile».
Ma Francesco Totti, a Roma, non può girare per strada nemmeno adesso che ha finito di giocare…
«A me basta mettere un cappellino. Mi piace girare per Roma e quando ho il giorno libero vado con mia moglie a vedere le tante bellissime città che ci sono in Italia. Mio bisnonno e mio nonno sono nati qui. Il primo ha combattuto in guerra, il secondo è partito per l’Argentina nel 1949. Era una nazione che dava lavoro e opportunità, adesso la stiamo distruggendo».
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