In un angolo dell’ufficio stazionano scatoloni da riempire. «Ma non mi porto via niente. Nemmeno quella serie di spille delle squadre partecipanti alla Champions League che colleziono dal 1999. Appartengono al Milan e, anche senza di me, il Milan resta uno solo». Umberto Gandini, da 23 anni legato alla società rossonera, non nasconde commozione e malinconia per una straordinaria parentesi di vita che si chiude. Ieri ha rescisso il contratto con il club di Silvio Berlusconi, da lunedì raccoglierà la sfida che James Pallotta gli ha proposto: diventare amministratore delegato della Roma. «Non avrei mai pensato di andare a lavorare in un’altra società italiana. Invece è arrivata questa opportunità che mi rende orgoglioso poiché riconosce la mia professionalità».
Non c’era posto per lei nel Milan del nuovo corso?
«Me lo sono chiesto anch’io ma poi il desiderio di crescere mi ha condotto a questa decisione. Del resto il cambio di proprietà comporta un turn over di dirigenti. Siamo alla fine di un’era, giusto così».
È uno degli ultimi della vecchia guardia a lasciare…
«Le aziende cambiano, il tempo passa per tutti. Qui però resta Adriano Galliani, uno dei più grandi dirigenti italiani. E per inciso l’uomo che mi portò al Milan quando mi occupavo dell’acquisizione dei diritti tv in Rti».
Quando è stato avvicinato dalla Roma?
«L’idea è nata a inizio giugno. Ci fu un incontro con il presidente Pallotta che mi ventilò la possibilità. Avrò l’opportunità di fare qualcosa di mio e avere responsabilità di leadership. Penso che mi abbiano scelto per dare alla Roma credibilità a livello internazionale».
Da Ministro degli Esteri del Milan, il dirigente straniero a cui è più legato?
«Il rapporto più lungo lo coltivo con Rummenigge che conosco dal 1992 quando ci trovammo a discutere della nuova formula della Coppa dei Campioni. Insieme siamo arrivati alla fondazione dell’Eca di cui sono stato fino a martedì vicepresidente».
Il successo di cui va più orgoglioso a livello europeo?
«Con l’Eca abbiamo ottenuto risultati impensabili a livello di influenza sulle decisioni di Uefa e Fifa. L’ultima vittoria è aver garantito all’Italia 4 posti fissi in Champions. Ma non dimentico ciò che accadde nell’estate di Calciopoli».
Cioè?
«Dopo aver battuto la Stella Rossa nei preliminari c’era chi dubitava della nostra partecipazione in coppa per motivi etici. Non solo restammo in corsa, ma vincemmo pure».
L’allenatore che ricorda con affetto?
«Capello che ad Atene contro il Barcellona nel ’94 non voleva che si bagnasse il campo, contrariamente a Crujiff. Era tesissimo, fino al 4-0 nessuno di noi in panchina poteva esultare. Ci avrebbe ammazzati. Poi, dopo la rete di Desailly, si sciolse anche lui».
Come vede il futuro del Milan con l’avvento dei cinesi?
«È finita un’epoca, ci saranno nuovi dirigenti ma il Milan è il Milan. Ha un dna e una cultura che nessun club possiede. Il Milan di Sacchi e di Capello è quello che i giovani cinesi hanno imparato ad amare».
Come si immagina la sera di Roma-Milan del 12 dicembre?
«Sarò come il giocatore che segna ma non esulta. Per rispetto».
(Corriere della Sera – M. Colombo)
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