(La Repubblica – E. Sisti) Corse voce che quella partita non si fosse mai giocata o che un venticello traditore avesse confuso le idee e spinto un milione di tifosi giallorossi attivi, a casa, nei circoli, allo stadio, alla radio, uniti dall’amore e dalle sue perverse evoluzioni, a credere di aver vinto la Coppa dei Campioni del 1984. Almeno per 55 secondi, il tempo in cui la Roma stette davanti al Liverpool durante i rigori in quella serata immaginaria. Da un giorno che sembrava non voler mai finire (alle 20.15 il cielo era ancora azzurro) si passò di colpo alla notte più fonda, senza vie di mezzo, come se fosse tutto avvenuto a novembre in Islanda. L’emozione era cominciata quando Vautrot fischiò la fine di Roma–Dundee nel caldo pomeriggio del 25 aprile. Non sapevamo ancora che la Roma si sarebbe trovata di fronte il Liverpool, che avrebbe giocato più tardi con la Dinamo Bucarest. Ma a chi importava? Di notte a comprare i biglietti. Si fece la fila come negli anni ’60 per iscrivere i figli a scuola. Ci si accampava. Roma era una città più ingenua, le macchine dai colori sgargianti e dalle forme angolari, gli autobus col cambio, l’abbonamento dell’intera rete appiccicato alle tasche dei Wrangler e un sindaco del PCI. La musica era una promessa ad ogni nota e ad ogni nota una sensazione nuova. Chi portava la radio allo stadio, perché si poteva, accendeva e sulla cassetta del piccolo portatile scorrevano Venditti, certo, ma anche Style Council, Wham! e l’ultima arrivata, la mitica Sade. Lo stadio era pieno di ragazzi, anzi fu quello il momento in cui ai cappelli degli adulti che popolavano gli stadi italiani degli anni ’50 si sovrappose un’altra generazione con la sua estetica dirompente, appena uscita dagli anni di piombo vissuti a scuola fra Moro, Marx, scioperi, picchetti fascisti, Kant, Montale e Pasolini. Per strada qualcuno voleva fare “il culo” ai bancarellari che avevano già messo in vendita la bandiera giallorossa con la coppa stampata. Altri convinti che il destino fosse già scritto (e stampato) l’acquistavano senza fare troppi scongiuri. Si parcheggiava al Villaggio Olimpico perché dopo lo scudetto portava bene attraversare Ponte Milvio a piedi. Quella finale nacque fra gli increduli e morì fra gli increduli. Erano le stesse persone, stordite prima e dopo ma per motivi antitetici, e alla fine piegate da un malessere che con la morte di Ago sarebbe diventato “dolore perfetto” dieci anni dopo. Noi entrammo allo stadio alle 13. Per due ore, a giochi fatti, vi rimanemmo dentro, prigionieri del sogno e di noi stessi. Guardavamo un punto luminoso della volta celeste che non era una stella. O forse sì. Ma era esplosa.
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