L’ultimo spettacolo stavolta è roba nostra. Lou, Mike, Kobe, Diego: l’addio alle armi non più vostro. Ma è «made in Rome». By Francesco. Dire e dirsi addio è sempre un film alla Frank Capra. Ma la colonna sonora è all italian: Morricone, De Gregori, Venditti, Piovani. E the end c’è davvero? O magari viene sostituito da un to be continued, alla prossima puntata, lontana da Roma, ma più vicina all’odore dell’erba. Però la letterina di Francesco e Ilary, anche se è impacciata, è da Oscar: c’è tutto, ironia, tristezza, paura, sentimento, padri e figli, ieri e oggi e maledetto il domani, se sarà senza pallone. Se, appunto, if. Come la poesia di Kipling.
Mai in Italia un giocatore era stato in mezzo al campo per così tanto tempo con un microfono in mano: a dire aiutatemi. Help me. E a passeggiare nervosamente come un uomo in sala parto. Finora era capitato solo per le emergenze (Scirea all’Heysel), mai per ricordare che c’è un tempo diverso, lontano dai miti e vicino agli uomini. E che i campioni possono essere gladiatori o Highlander, ma quando escono di scena hanno bisogno della tua carezza perché custodiscono il mistero della gioia data e avuta. Il 4 luglio del 1939 allo Yanke Stadium, un ragazzo di 36 anni, prima base degli Yankees, formidabile campione di baseball, capace di giocare 2130 partite consecutive, fa piangere tutti, anche il sindaco Fiorello La Guardia. Il ragazzo non riesce più a tenere la mazza in mano, è ammalato di Sla, di un morbo che porterà il suo nome Lou Gehrig. 61.608 fans sono lì per lui, gli danno un premio, ma Lou è costretto a poggiarlo a terra, non ha più forza nelle braccia. Eppure è stato il primo giocatore del ventesimo secolo a battere quattro fuoricampo in una partita.
Sembrava che solo l’America avesse il copyright della cerimonia degli addii. L’ultima volta di Michael Jordan si è ripetuta tre volte: nel ’93, nel ’98, nel 2003. Per Larry Bird, uno che di basket se ne intendeva Mike era «semplicemente Dio travestito da Michael Jordan». Air lasciò per davvero a 40 anni davanti a 21.257 spettatori con una sconfitta e affidando ai tiri liberi gli ultimi due punti della sua carriera. Per tre minuti il First Union Center di Filadelfia non fece altro che piangere: Jordan non era il suo dio, ma se il basket è la tua religione non puoi non ringraziare l’uomo che ti ha fatto vedere il cielo, che ha vinto sei campionati con la stessa maglia (Chicago Bulls), che ha segnato 38.451 punti, per poi chiederti se ti andava di fumare un sigaro con lui. Si sa, Hollywod non spegne mai le sue stelle. Per questo Koke Byant l’anno scorso scelse da solo, a 38 anni, il viale del Tramonto dopo 20 stagioni a Los Angeles con la stessa maglia (Lakers), con un’ultima partita da 60 punti e con un lungo addio già annunciato e celebrato su tutti i campi. «Il mio corpo non ce la fa più». Ma in casa, allo Staples Center, fu tutto diverso: ovazione e coriandoli, lacrime e ricordi, sorrisi e tristezza, consapevolezza e pace. L’inno suonato da Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers. Vittoria in rimonta contro gli Utah Jazz (101-96). Un’uscita di scena a 4”1 dalla sirena finale. «Sarete sempre nel mio cuore». E l’omaggio dei suoi immensi colleghi: Magic Johnson, James, Curry, Shaq, e mettiamoci anche Jack Nicholson.
Diverso l’addio di Diego Armando Maradona nel 2001 nello stadio Bombonera di Buenos Aires: non una festa, ma una psicosi collettiva, però impressionante per folla e follia, per ammissione di colpa e salvataggio in extremis del pallone: «Io sono sporco, ma il calcio è pulito». Diego, ubriaco di se stesso, che in campo si trascinava, ma con le figlie pronte a sorreggerlo, e con l’Argentina pronta ancora una volta a baciarlo. Quando la gloria è cellulite che fa male. Invece a Roma la Totti family che si abbraccia. La prima volta che l’Italia non guarda al colore della maglia, ma a quello che c’è sotto e attorno. Un bel film, che fa piangere e ridere. E prossimamente chissà su quale schermo.
(La Repubblica – E. Audisio)
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