(La Repubblica – P. Di Paolo) Perfino nella sala d’attesa di un oculista, è bastato attendere un paio di minuti. Poi il grande, contagioso, trasversale umore (alle stelle) del day after si è fatto sentire anche lì. «M’avevano dato l’appuntamento ieri, ma per carità, ieri senza occhi nun potevo mica sta’». Ieri sarebbe ormai l’altroieri: il glorioso 10 aprile 2018 di Roma- Barcellona finita 3 a 0. Chi conosce l’anima romanista della città, sa bene quanto i dopo- partita nei bar e sulle frequenze radiofoniche possano essere articolati, se non interminabili. Ma sono cose da tifosi. Ieri è stato diverso. Un’aria magnetica di festa sopra le righe, l’entusiasmo esploso in notturna — nelle piazze di Testaccio e di Trastevere, caroselli, clacson, sbandieramenti, tuffi in fontana — è proseguito per tutta la giornata seguente, un after hour ostinato e un po’ incantato, imbambolato direi. Perché il problema non è stato quello di restare svegli nelle ore piccole, ma convincersi progressivamente di non star sognando. E così non si è fatto un passo senza essere riportati lì, all’Olimpico, come all’unico spazio esistenziale praticabile, davvero e fino in fondo vivibile. «Una partita dunque vinta e dominata sotto tutti i punti di vista, compreso spesso quello fisico, il più temuto della vigilia» . La cronaca che trentaquattro anni fa, su questo giornale, accompagnava la squadra verso le semifinali di Coppa dei Campioni si adatta perfettamente all’impresa di ieri. L’intensità della reazione emotiva è determinata non solo — come si è detto — dalle altalene umorali tipicamente romaniste, dalle frustrazioni più o meno recenti, ma da questa lunga lunghissima attesa della Partita Incredibile. Il 3 a 0 con la “ quadratissima Dinamo Berlino” della primavera 1984 ( gol di Righetti, Pruzzo e Cerezo), però, risulta appena un po’ meno appariscente, un po’ meno epico. Stavolta si sono inchinati i rivali, gli ex amici, i mezzi amici. Si sono inchinati praticamente tutti. La vecchia proprietà, il vecchio allenatore, la sindaca ( quasi) laziale. Che riceve Pallotta per congratularsi, lo rimprovera per il tuffo nella fontana di piazza del Popolo ( e lui promette una donazione di 230mila euro). Ma più dei soldi, come direbbe Dzeko, conta il cuore: e quello sì che è impazzito, ha perso battiti, ne ha guadagnati troppi. A Santa Maria Liberatrice, l’altra sera un ragazzo urlava al telefono: «Amo’, ho pensato di morire, poi mi sono abbracciato con tutto lo stadio!» . I bambini, correndo, invocavano la vacanza d’ufficio: «Domani niente scuola» . In un bar ho sentito due anziani impegnati in una certosina analisi dei risultati più clamorosamente imprevisti della loro carriera di tifosi. E rispetto a quello di martedì, sembravano non essere ancora riusciti a smaltire l’incredulità. Gente svociata — diciottenni e cinquantenni, senza più differenze — e sorpresa dall’avere cantato qualunque cosa («Perfino Tanto pe’ canta, che mi era sempre sembrata una canzone un po’ scema» ), e soprattutto pianto come vitelli. C’è il pub che da un certo momento in poi ha dato ai clienti acqua e zucchero, per evitare svenimenti. C’è chi aveva scommesso, per scherzo, sul passaggio di turno e ancora si deve capacitare. C’è chi aveva fatto giuramenti e fioretti che ora si trova costretto a onorare ( dai tatuaggi a rinunce impegnative). C’è chi, tornando a casa dallo stadio, si è rivisto la partita daccapo, per provare a capirla. C’è chi ha avuto l’impressione, all’uscita tormentatissima di Tor di Quinto sull’Olimpica, che le buche si fossero richiuse da sole. Romanisti piemontesi di Pinerolo, bolognesi, toscani, risaliti sui treni del primissimo mattino con l’impressione di essere tornati dalla luna. O forse, come pensano migliaia di romani, di essere ancora lì — cratere più, cratere meno.
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