James Pallotta e Monchi

(Il Messaggero – U. Trani) L’obiettivo più complicato è stato raggiunto all’inizio del 2018: rovinare la stagione più entusiasmante dell’éra Usa. E non è stato centrato per caso. A vedere quanto è successo all’alba del nuovo anno, sembra che Pallotta e i suoi collaboratori abbiano preso la mira per non far cilecca come di solito capita a Schick, Under e Defrel. E pensare che, questo sì involontariamente, il percorso imboccato dopo l’addio di Spalletti ha dato, almeno in partenza, l’idea che fosse davvero quello della svolta: Di Francesco, non la prima scelta per la panchina, ha avuto il merito di riportare l’entusiasmo tra la gente che dal 2011, cioè dall’insediamento degli americani a Trigoria, è evaporato e non solo per la mancanza di successi (in primavera si festeggia il decennale). Il presidente a Boston, il vuoto di potere a Trigoria, il via vai di dirigenti e tecnici: è venuto meno, in questi anni, il senso di appartenenza, anche perché prima è stato messo alla porta Conti e a seguire è stato accompagnato in tribuna Totti. Simboli del club in Italia, all’estero e soprattutto qui, nella Capitale. Eppure, come d’incanto, sei mesi fa la situazione si è sistemata, nonostante la squadra del 2° posto e del record di punti non ci fosse più (3 titolari e mezzo in meno). È bastato poco. Totti ha accettato di fare il dirigente e si è subito seduto sul pullman accanto al nuovo allenatore. E Conti è tornato ad essere coinvolto nella struttura del settore giovanile, con la possibilità di riprenderne il comando a fine stagione. Poche mosse e nemmeno costose, ma finalmente da romanisti.

NUOVO STRAPPO – In poche settimane, però, è stato certificato l’ennesimo ribaltone. E il clima è tornato pesante. Addirittura peggiore di prima. La Sud ha contestato la società, scegliendo Pallotta e Baldissoni come principali responsabili del nuovo flop, e fischiato i giocatori dopo il 7° ko stagionale. Prima del match contro la Sampdoria ha applaudito Di Francesco, dopo l’ha risparmiato: la gente ha capito che prendersela con l’allenatore significa solo concedere alibi alla dirigenza. Che, non avendo mai saputo comunicare, fatica a interfacciarsi con la piazza. Quando si espone il presidente, a Trigoria tremano per le conseguenze: perché una cosa dice e la stessa cosa smentisce. Eppure ogni suo intervento è registrato. L’ultimo (e non il primo) contro i tifosi ha generato la protesta di queste ore: in pubblico ha detto che a Roma (e a Napoli) non si può andare allo stadio e a Milano e Torino sì. In privato è andato oltre, invitando Monchi ad anticipare le plusvalenze. In inverno, senza aspettare l’estate. E senza pensare al lavoro di Di Francesco, alla doppia sfida contro lo Shakhtar (ottavi di Champions) e al 4° posto vitale per chi usa gli introiti dell’Uefa per sopravvivere.

VIA (PER ORA) SOLO EMERSON – Input chiaro: Strootman, Nainggolan, Emerson e Dzeko subito sul mercato. Il ds si è adeguato, senza fare una piega. L’allenatore pure. Ma, se proprio dovrà ringraziare qualcuno, si rivolgerà al governo cinese che ha bloccato il trasferimento di Nainggolan e alla moglie di Dzeko che gli ha confermato il centravanti promesso dalla società al Chelsea. Non certo Monchi che, a Londra, ha mandato in avanscoperta Emerson. E che in estate è riuscito, con 3 mesi a disposizione, a non prendergli il sostituito di Salah. Non lo è nemmeno Vidal, jolly come Florenzi. Buono per ogni ruolo a detra, non specialista. Proprio il contrario di quello che chiede, da luglio, il tecnico.



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