Juve-Roma di domani è un match fra giocatori che arrivano da una ventina di Paesi e tre continenti diversi. Sfida dei mondi dunque, nello Stadium. La Roma si è guadagnata sul campo il titolo di sfidante dei campioni in carica con un rendimento abbastanza continuo e col successo sulle altre candidate – più o meno presunte – alla corsa per il titolo. Come nei primi anni Ottanta, quando la Roma del pallone fa un decisivo salto di qualità e si siede al tavolo delle grandi del nostro calcio. Sono cambiate un oceano di cose, nei trentacinque e passa anni che ci separano dal quel giorno di maggio 1981 in cui l’arbitro Paolo Bergamo annullò il famoso gol di Ramon Turone.
Poche storie, Juve-Roma resta la partita più polemica del nostro calcio. Per fortuna questo non è l’unico tratto di continuità nella sfida tra bianconeri e giallorossi. Anche se con molte contaminazioni e qualche capriola, credo che il Dna della Juve e della Roma – in questi decenni – sia rimasto abbastanza intatto. Parlo di stile di gioco. Quello del Trap era uno squadrone fenomenale sul piano delle individualità, della personalità e della capacità di competere. La Roma di Nils Liedholm, impostata attorno al divino Falcao, era qualcos’altro. Anziché difendere il risultato con un terzino schierato nel finale al posto di un’attaccante, il Barone lo inseguiva arretrando il più tecnico dei suoi centrocampisti italiani – Di Bartolomei – nei quattro della difesa che marcava a zona, cosa assolutamente rivoluzionaria nella A di allora.
Anche simbolicamente, il De Rossi che in questi anni Luciano Spalletti (ma non solo) ha arretrato spesso tra i difensori ci dice che il Dna è quello, ancora vivo. Max Allegri è meno concettuale e più pragmatico nel suo stile di tradizione italianista aggiornato al nuovo millennio. Per lui, il risultato coincide con l’estetica. Invece, nello sguardo di Spalletti l’estetica coincide col risultato. In fondo, per essere quasi perfetta, una squadra dovrebbe voler giocare come la Roma e vincere come fa la Juve.
(Gazzetta dello Sport)
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