Osservandoli uno accanto all’altro, sotto la virgola della Nike, lo sponsor comune che per entrambi riluce d’oro sonante, non potrebbero sembrare più distanti. Kobe, il serpente del parquet, elegante, flessuoso, micidiale, e Francesco, il piccolo imperatore dell’urbe, dai polpacci muscolosi e i capelli con il ciuffo cresciuto in mezzo alla Roma del popolo, che ha saputo trasformare una zolla di prato verde in un regno sul quale vorrebbero – lui e i suoi sudditi – che il sole non tramontasse mai. Eppure uno è venuto qui per insegnare all’altro come si fa a finire perché anche gli dei ammainano le loro bandiere prima di essere atterrati dalla noia. Bryant avrà trentotto anni tra poche settimane, è nato il ventitré agosto del ‘78, si muove da Black Mamba tra i fotografi e i ragazzi del business arpionando al volo una lattina di cocacola che qualcuno gli ha lanciato da distanza ragguardevole. Ha giocato l’ultima partita con la maglia indossata per vent’anni dei Los Angeles Lakers (prima il numero 8 poi il 24) il 13 aprile: sessanta punti e un’altrettanta pioggia di lacrime, atto finale di un “farewell tour” lunghissimo, un atterraggio dolce sull’addio. Perché anche i sentimenti invecchiano. Lui l’aveva messo nel conto all’inizio della stagione dell’Nba con una lettera scritta al Signore del basket, in realtà indirizzata a se stesso: “Da quando avevo sei anni e arrotolavo i calzini a mio padre ho sempre corso senza vedere la fine del tunnel. Oggi il mio cuore può sopportare la battaglia, la mia mente gestire la fatica, ma il mio corpo sa che è ora di dire basta. Sono pronto a lasciarti andare e voglio che tu lo sappia, così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane assieme”. È un bravo sceneggiatore, Kobe, scrive libri, vuole fare film. Totti è timido e orgoglioso, firma la maglia numero 10 della Roma tirandosi in piedi in segno di rispetto verso i colori di una vita, il pennarello lo tradisce e lui è costretto a ricominciare daccapo. Domanda a Bryant della famiglia, gli parla dei suoi figli e dei bambini della scuola calcio. Francesco non ha un regista alle spalle, solo lo sguardo di Vito Scala, la sua ombra fraterna. Gli basta e avanza. Il 27 settembre festeggerà quarant’anni. Giocherà ancora. Nel 2010 aveva fatto una promessa: smetto tra cinque anni, già si immaginava nelle partite alle carte con gli amici. Ride e dice: «Era una bugia». Ha resistito, non ha voluto che fossero gli altri a decidere per lui. Ma oggi è venuto a lezione, a imparare come funziona la legge della decadenza.
Totti. «Non ci siamo mai incontrati prima d’ora, sai com’è… non sono mai andato molto all’estero. Però ti ho sempre seguito, abbiamo all’incirca la stessa età e condividiamo la voglia di far divertire chi ci viene a vedere. Abbiamo tutti e due indossato una sola maglia. Una scelta bellissima, per quanto mi riguarda».
Bryant. «Bellissima e non scontata. Cambiando forse avremmo vinto di più, guadagnato più soldi. Ma così abbiamo portato a casa anche il record della fedeltà. Io alla fine ho sentito di aver formato un’altra famiglia. Non amo fare le cose semplici, ma quelle giuste».
Totti. «Ho cominciato a giocare nella Roma nel 1989, oggi posso dire che è stato un onore. Sarebbe stupido fare il bilancio dei profitti e delle perdite, ho dato e ricevuto in parti uguali. Ho il diritto di guardare tutti a testa alta. Non ho rimpianti né rimorsi, nulla da farmi perdonare. Forse non sono una leggenda come te, ma sono stato un atleta onesto, leale. In campo ho sempre dato il massimo, credo di averlo dimostrato anche durante l’ultimo campionato».
Bryant. «A parte il mio, il calcio è lo sport che preferisco. In tutti questi anni mi sono ritrovato più di una volta a studiare i tuoi movimenti sul campo, soprattutto mentre stai aspettando il pallone o quando effettui il passaggio. Vedi, mi concentravo sull’angolo che creano i tuoi piedi rispetto al terreno, la capacità di sapere dove si trova il compagno a cui darai la palla senza guardarlo. Forse non riesco a spiegartelo bene nel mio italiano incerto, ma, credimi, mi è stato utile spiare alcuni tuoi segreti tecnici. Io sono uno che ha sempre analizzato molto gli altri: compagni, avversari, giocatori di discipline differenti. Raccolgo filmati, faccio disegni».
Totti. «A Roma diciamo rubare con gli occhi. Io sono un istintivo, ma il basket insegna l’occupazione del campo e l’impostazione della manovra di gioco. Di te ho sempre ammirato due caratteristiche: l’eleganza del gesto tecnico e l’invenzione improvvisa, la ricerca di qualcosa che supera la bellezza e sfiora l’impossibile. Uno resta lì, incantato. E vorrebbe che quella meraviglia non finisse mai. E invece…».
Bryant. «Può essere più semplice di quanto credi. L’anno scorso ero in macchina quando ho deciso che avrei smesso. Ero solo, nel traffico da paura della 405 Freeway di Los Angeles. Ti assicuro che ho avuto tutto il tempo di riflettere…Ho detto, ehi! Kobe, hai ancora voglia di andare avanti, la palestra, il canestro, il sudore sul parquet? Hai ancora voglia di allacciarti gli scarpini per la milionesima volta…? Hai ancora voglia di altri campionati, di nuove vittorie, di nuovi dolori? E all’improvviso, zac!, ho sentito che non avevo più l’ossessione di tutta quella roba lì. Capisci, era scomparsa non la passione, ma l’ossessione. E qualcos’altro si stava affacciando nella mia vita, piccole cose che si avvicinavano. Altri mari. Ho capito con chiarezza che potevo smettere e andare lo stesso a coricarmi tranquillo ogni sera. La vita sarebbe cambiata molto velocemente».
Totti. «Allora salirò in macchina anch’io quest’anno…cercherò una strada molto trafficata e metterò su della musica. Sarà la mia ultima stagione di calcio, ma voglio che sia ancora un grande anno di calcio. Lo voglio con tutto il cuore e l’ho dimostrato sul campo nella parte finale dello scorso campionato. Nessuna ribellione, ho usato parole forti perché sono convinto che non era giusto finire così, la mia passione e l’impegno che ho sempre avuto nei confronti della maglia giallorossa meritavano maggiore rispetto».
Bryant. «Ti prepari anche tu ad un lungo tour d’addio negli stadi italiani. Come lo stai organizzando?».
Totti. «Non ci sto affatto pensando, nessuna programmazione nella mia testa. Mi allenerò seriamente e se lo merito giocherò, altrimenti mi accomoderò in panchina. Credo che per la squadra potrò rappresentare ancora una risorsa. Anche a quarant’anni».
Bryant. «Bisognerà fare i conti con la solitudine. In campo, che tu sia un leader oppure no, non resti mai da solo. Ora io mi sento solo alle quattro della mattina. Mi sveglio e cerco un posto dove andare, ne avverto il bisogno fisico, come quando senti i morsi della fame. Allora m’infilo una maglietta e vado nel mio studio a lavorare, le idee migliori arrivano all’alba».
Totti. «Dopo una partita, la mia solitudine è sempre cominciata sotto la doccia. Non è soltanto una battuta di spirito. Non ne ho paura. Per quanto riguarda il luogo che mi accoglierà, quello che mi viene naturale di pensare è Trigoria, il centro sportivo della Roma. Un tempo ho detto che mi vedevo esclusivamente in un ruolo dirigenziale, ma quando stai per smettere o hai smesso per davvero scatta qualcosa nella testa che ti fa sospettare di non poter rinunciare ad avere un pallone tra i piedi. Non mi sento dunque di escludere una futura esperienza da allenatore. Lo hanno fatto tanti miei ex compagni, posso provarci anch’io».
Bryant. «Se dovessi sintetizzare la mia vita nel basket in una parola, sceglierei la parola amore. E tu?».
Totti. «Io ho bisogno di qualche parola in più: aver fatto bene il proprio mestiere. E mi piacerebbe averlo insegnato un po’ alle generazioni che vengono dopo la nostra. E ai nostri figli».
Bryant. «Alle mie bambine dico: non arrendetevi mai se vi troverete a lottare per un vostro desiderio».
Totti. «Ai miei figli dirò: divertitevi».
(Al passo d’addio Michael Jordan disse più o meno così: ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso trecento partite ed è per questo che alla fine ho vinto tutto).
(La Repubblica – D. C. Dina)
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