Gian Piero Ventura

(La Repubblica – M. Crosetti) Era la luna piena, ieri notte sopra il cielo nero dell’Italia, una luna assai più mobile nel suo percorso celeste degli azzurri pallidi in campo, e quella luna piena aveva il faccione di Carlo Ancelotti. Il quale, diversi anni fa e scherzando, disse che avrebbe voluto essere il ct della nazionale ai mondiali 2018 perché l’Italia va in finale ogni 12 anni (1970, 1982, 1994, 2006). Le somme adesso tiratele voi, possibilmente in porta. L’immane fatica di una delle peggiori squadre del dopoguerra, non più figlia ma ormai cugina di un campionato che ha ripreso a proporre giovanotti non male, alcuni dei quali sono stati anche chiamati, ha messo a durissima prova le tasche dei pantaloni di Gian Piero Ventura che non ha mai levato le mani di lì, se non per mimare la partita che avrebbe voluto e che non ha avuto, disegnando nell’aria movimenti che i giocatori non avrebbero mai eseguito. «Capisco i fischi della gente anche se la nazionale andrebbe sempre aiutata, perché il nostro secondo tempo è stato deludente, ci sono mancati altri giocatori ed eravamo stanchi». Eppure lo stadio è sembrato paziente, moltissimo. Si è sfogato solo quando era impossibile non farlo. «Noi dobbiamo aiutare il pubblico ad applaudirci, ma anche il pubblico deve aiutarci». Aiutati che il ciel t’aiuta, mica sempre però. Il repertorio di smorfie del nostro ct, sul cui viso si sono via via affacciati preoccupazione, rabbia, sgomento, disgusto e un filo di nausea nel finale, ha rappresentato bene ma per difetto i volti degli spettatori allo stadio e davanti alla tivù, impegnati nel gestire emotivamente una pena profonda. Mai quanto il terrore, a questo punto concreto, di non andarci proprio, al mondiale, altro che finale ogni dodici anni. «Abbiamo perso il filo conduttore, ma prima secondo me c’era stato. La nostra condizione atletica è scesa nel tempo, ed era impensabile portare a casa il risultato senza attaccare». Il giorno al contrario dell’Italia era stato preceduto da un lungo incontro mattutino tra Ventura e Michele Uva, il direttore generale della Federcalcio che ha ribadito al ct come l’Italia non possa in alcun modo non arrivare in Russia. Nello stesso momento, a meno di un chilometro di distanza, Carlo Ancelotti riceveva il Premio Ghirelli dicendo che no, per quest’anno non allenerà nessuno. Qualcuno gli ha creduto: pochi. Diventati pochissimi, per non dire nessuno, allo scoccare delle 22 e 40, quando l’Italia è uscita dal campo dopo non esserci mai entrata. E Florenzi a casa, a riposarsi. Grande è la confusione sotto il cielo, a strapiombo esatto sullo stadio dove Gian Piero Ventura ha vissuto giorni felici alla guida del Toro, svariate vite fa. Grande è la confusione anche in campo, dove il pubblico ha preso atto della difesa a 3 più due terzini (alcuni protagonisti sono ancora in servizio, altri in disarmo, altri ancora pronti per il prestigioso Museo Egizio, gloria e vanto della città), mentre al Bernabeu si era assistito a quel 4-2-4 che a qualcuno aveva ricordato remoti studi classici, quelle versioni dal greco in cui si narrava di come venga talvolta punita dagli dei la “hybris”, la tracotanza. «Siamo ufficialmente secondi: se andremo agli spareggi, giocheremo gli spareggi», ha chiosato Ventura. Più che altro, siamo ufficialmente in balia dell’alta marea. Crescente e piena, come la luna.



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