Cala il sipario, ma la luce s’era spenta già. Un clic, Daniele De Rossi chiude l’interruttore della Roma. Prima il suo, quello che quando scatta gli annebbia la vista e lo fa deragliare. Il solito vizio, il solito eccesso: un passo oltre la linea d’ombra che segna la differenza tra fare il duro e fare il bullo. La partita resta viva perché così la tengono la rabbia di Spalletti e di Nainggolan, di Strootman e di Manolas. Ma nel cuore dei 40mila romanisti dell’Olimpico, di quella curva di nuovo piena sei mesi dopo l’ultima volta, la partita finisce quando De Rossi affonda i tacchetti nel perone di Maxi Pereira: la Roma è già sotto, ma è un sub che tenta di riemergere e intravede la luce. Quel piede dritto sull’avversario invece la zavorra in modo irrimediabile. L’arbitro, l’inflessibile polacco Marciniak, gli sventola in faccia il decimo “rosso” diretto della sua carriera (otto nella Roma, due in nazionale): abbastanza per essere sicuri che non sia un caso. E riapre il dilemma su cosa succeda nella testa di un ragazzo dal cuore d’oro con l’unico difetto di non avere alcuna idea di come gestire l’impeto. Sarebbe un eroe romantico se non fosse un iper professionista: uno che sul libro paga incide quasi per il 10 per cento del totale. Così mentre sui teleschermi d’Italia scorrono le immagini dell’ultima espulsione pare di rivederle tutte: il peccato originale della gomitata a McBride ai mondiali del 2006, così diversa dall’ultima, ma ugualmente inopportuna, ugualmente superflua e ugualmente inspiegabile con la fredda cronaca dei fatti. Non aveva giocato sabato con l’Udinese De Rossi: Spalletti gli aveva chiesto di dirottare ogni energia fisica e mentale sulla gara che valeva un jackpot: 28 milioni almeno, forse addirittura 35. Praticamente un terzo del fatturato, perché nel calcio di oggi vittorie e sconfitte si misurano sul conto corrente. Invece in 10 minuti, quelli passati tra l’espulsione di De Rossi e quella di Emerson, colpevole di fotocopiare sulla caviglia di Corona l’entrataccia del suo capitano (e ottenendo lo stesso trattamento dal fischietto polacco), la Roma incenerisce il lavoro degli ultimi sei mesi della scorsa stagione.

Quando rimontando dal sesto al terzo posto s’era costruita l’opportunità di giocare per la Champions League. Di quei sacrifici, che Spalletti aveva evocato davanti ai microfoni come a soffiare sull’orgoglio della squadra, resta nulla. Per la sesta volta negli ultimi sette anni un’italiana trova chiuse le porte dell’ingresso secondario alla Champions League: Totti, masticando nervosamente in panchina, alla competizione dà l’addio definitivo senza averla più riassaporata dopo gli applausi del Bernabeu a marzo. Sono le immagini dell’occasione sprecata: l’1-1 dell’andata offriva un viatico semplice per passare, bastava non prendere gol. Ma che quella somigliasse a una trappola lo sospettava l’allenatore e forse l’aveva trasmesso ai giocatori, che fin dall’inizio parevano fin troppo nervosi. Colpa pure dell’esperienza che mancava a una squadra che per 4 undicesimi debuttava in Champions o quasi. Ma colpa soprattutto del dna di una squadra che troppo spesso di fronte a un bivio prende la strada contromano, indipendentemente dal nome dell’avversario: la luce s’era spenta a Manchester contro i colossi dello United con Spalletti in panchina, nove anni fa. Finì 7-1 dopo un successo all’Olimpico. Ma pure con il piccolo Slovan, all’alba della gestione americana, o lo scorso dicembre contro l’ancor più piccolo Spezia al crepuscolo dell’era Garcia. Era finita 0-3 pure due anni fa, contro la Fiorentina, in Europa League. Tutto troppo simile a mille altre notti a tinte giallorosse: film già visti, ma ogni volta il remake è squallido quanto la pellicola che l’aveva preceduto. Al massimo cambiano le facce (ma mica tutte). E pure la colonna sonora della curva, “Che sarà sarà”, risuona sempre uguale.

(La Repubblica – M. Pinci)



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