Josè Mourinho

AS ROMA NEWS MOURINHO – «He’s a hammer». E’ un martello. I giornalisti inglesi al King Power Stadium descrivono così José Mourinho, dopo averlo (ri)visto giocare la partita con i suoi incontenibili balzi a bordo panchina. Il metodo motivazionale, che punta prima sulla testa e poi sugli schemi, comincia a erogare risultati nella Roma, ormai solida e concreta, scrive il Corriere dello Sport.

Se ne è accorto anche Gary Lineker, leggenda del calcio inglese e tifoso del Leicester, che ha usato l’ironia british per descrivere le difficoltà impreviste incontrate da Brendan Rodgers nella semifinale di Conference. «Quel cappotto che sembra una volpe argentata – ha scritto su Twitter commentando il look di Mou – è stata una strategia per disorientare noi Foxes. Sta funzionando».  

Ecco: con il principio dichiarato della «stabilità», che protegge meglio di qualunque cappotto, Mourinho ha trasmesso un’identità alla squadra che può quasi prescindere dai risultati delle prossime tre settimane: la Roma potrà vincere la Conference League e arrivare quinta in campionato oppure perdere tutto, persino un piazzamento in Europa. L’importante sarà il piano di rafforzamento estivo, semmai. «Ma per come stiamo lavorando i progressi sono evidenti – ha chiarito l’allenatore – io sono contento comunque per quello che siamo diventati. Cinque mesi fa a Leicester avremmo perso, invece ora siamo qui ad accettare un risultato che magari poteva essere più favorevole». 

Ha impiegato meno di un’ora a entrare nel cuore dei romanisti, che lo hanno eletto naturalmente a capopopolo, ha impiegato meno di un anno a creare una Roma a sua immagine e somiglianza. Era il 4 maggio quando i Friedkin, con una semifinale ancora da giocare, ne annunciavano a sorpresa l’ingaggio. In molti all’epoca sospettavano che Mourinho si fosse accontentato della prima offerta disponibile dopo il doloroso esonero del Tottenham. E che mirasse a garantirsi un finale di carriera passionale ma non troppo ambizioso in un bel posto dove vivere.

Forse, nonostante il curriculum, era stato sottovalutato. E si è capito in modo definitivo il 9 gennaio, la sera dell’incredibile sconfitta contro la Juventus, quando disse schiettamente: «Non pensavo fosse così difficile trasmettere la mia mentalità. Qui c’è gente abituata alla comfort zone di un quinto-sesto posto. Ma devono essere i calciatori a salire al mio livello, non io a scendere al loro». 

Detto, fatto. E’ cominciata lì la serie di 13 giornate di campionato senza sconfitte, interrotta sabato scorso dall’Inter che è anche l’unica squadra italiana ad aver battuto la Roma nel periodo esaminato, Coppa Italia inclusa. L’altro ko, ricordato per la rissa da spogliatoio più che per il risultato, è stato quello ininfluente di Bodø, cancellato dal 4-0 dell’Olimpico.

Qualcosa è certamente cambiato nello spirito collettivo, al quale Mourinho ha aggiunto qualche ingrediente decisivo: il lancio di Zalewski, che nemmeno il protagonista immaginava, la definitiva virata sulla difesa a tre (o a cinque) che l’allenatore ha adottato per rassicurare la squadra, la costruzione di un blocco di pretoriani pronti a sacrificarsi per «José, the italian uncle». Lo zio italiano come direbbe Abraham

Ora la Roma, che nelle ultime 28 partite europee all’Olimpico ha perso solo una volta contro il Real Madrid, è chiamata all’ultimo passaggio: vincere la finale nel giardino di casa per meritare la finale vera, a Tirana. E’ una condizione di partenza invidiabile, alla quale Mourinho ha dato il giusto peso: per uno che ne ha vinte quattro su quattro, di finali europee, nessun risultato è scritto finché non finisce sugli almanacchi. 



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