La vittoria sporca è virtuosa, la vittoria sporca è impura. Risolvere una grana con l’ultimo o l’unico gesto a disposizione, rubacchiando il destino con o senza estro e senza mai disdegnare la botta di culo (la vittoria sporca non ama i giri di parole e detesta gli eufemismi). Il campionato è ripreso per molti così, smacchiando partite sudicie come camicie. Il provvido autogol. Il tiro estremo, meglio se un tiraccio a occhi chiusi e come va, va. Saper trascinare l’avversario in questa specie di fango tecnico, di macchia tattica che confonde e risolve. Come il cacciatore miope che spara nella nebbia e fa centro dal barile, come l’innamorato che fa colpo con l’ultima parola, con quel messaggino, con un regalo che non fa più nessuno. E chissà perché in Italia amiamo così tanto inzaccherare le partite, strizzarle e cavarne i tre punti. Se in Spagna giochi bene o benissimo, nessuno ha nulla da ridire: mica se la prenderanno con Barcellona o Real per eccesso di bellezza. Da noi, viceversa, Sarri è quello che sa vincere solo giocando bene: una colpa? Un limite? Di riffa o di raffa purché sia, forse c’entrano decenni trascorsi arrangiandosi, venendo a capo di avversari superiori. In fondo, anche il classico gioco all’italiana altro non era che sporcare un po’ le partite per poi catturarle. Come quei pesci abituati ai torrenti luridi: se li metti nell’acqua pulita, dieci minuti e schiattano.

Nel bizzarro realismo magico che a volte condiziona il giudizio, se vinci una partita sporca “vuol dire che è l’anno giusto”. Come se esistesse un dio che premia chi si arrabatta, che ama chi alla roulette punta tutto sul rosso o sul nero per non sforzarsi nemmeno di scegliere un numero. Oppure, perché una su due sarà rosso o nero, a parte lo zero, verde, che pure lui gioca sporco. Il gioco sporco è brutto ma piace perché è un furbo, uno che alla fine se la cava. Ma anche perché è un tenace, un ruvido. Uno che conosce se stesso. Un battilastra della vita: a forza di colpi, il metallo cede. A volte, però, il giocatore sporco è solo un Gastone che passava di lì per caso, ha visto brillare qualcosa accanto a un tombino, si è chinato ed era una moneta d’oro. Anche se non esiste autorete senza il tiro che l’ha provocata, e mettere le mani nella melma non è mai divertente. Eppure, nell’arte è così, soprattutto nella letteratura: solo sporcandosi le mani si cava la pepita. Ma in campo? Qual è la pietra filosofale capace di trasformare la materia che pareva corrotta? O era solo pietra pomice per grattare i piedi? La carambola del povero Izzo a Marassi, i guizzi di Bacca e Perisic, Tonelli e Immobile custodiscono un fascino – lui sì – puro e incorrotto: quello della speranza di chi ci prova, del disperato ottimismo di chi non s’arrende mai. Se non sei Higuain che la mette dentro al volo dopo sette minuti, forse puoi essere un bucaniere dell’ultimo arrembaggio, con la benda sull’occhio e la bandiera nera. Non solo la fortuna, anche il gioco sporco aiuta gli audaci. E qui i puristi magari s’indignano: andatelo a dire a Sacchi che si può vincere lucrando e giocando male. Certo che si può, ma non si deve. Non apposta, almeno. Anche se qualunque tifoso vi dirà che il massimo della libidine è vincere un derby all’ultimo minuto su autorete, o con un rigore che non c’era. Perché le gare pulite non se le ricorda nessuno, sono efficienti e noiose come i primi della classe. Invece le partite sporche sono come le barzellette sporche, i film sporchi (ma si dice ancora?), le mani sporche, possibilmente di Nutella. Una goduria.

(La Repubblica – M. Crosetti)



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