Sherazad raccontava storie per rinviare la morte, Francesco Totti prolunga la propria vita calcistica a suon di magie sempre più scarne ed essenziali, brusche cicatrici del genio. Domani festeggia 40 anni, gioca in serie A dal 1993 e sovente gli capita d’affrontare avversari nati quando lui debuttò. Ha infranto ogni record romanista e si è ritagliato uno spazio importante nella storia del calcio; ma non basta. C’è qualcos’altro che gli brucia dentro e non si tratta di voracità, denaro o brama di proscenio. Lui non vuole “morire”. È un padre e un marito felice, lo corteggiano politici e uomini di spettacolo, pubblicitari e ragazzine; non basta. Totti, per noi già immortale, non vuol morire dentro, dove ancora s’ode il cuoio che rimbalza sull’asfalto di un cortile; e continua a giocare. Gioca poco, ma grazie a qualche bizzarra concentrazione dello spazio e del tempo quel poco si dilata. Lui mette piede in campo e tutto è sospeso, come la sfera mentre ricade da uno dei suoi felpati pallonetti. I compagni si esaltano, gli avversari si contraggono, il pubblico diviene un’onda, nello stadio corre l’attesa… e spesso l’attesa è premiata. Con l’età e l’esperienza Totti massimizza il proprio talento; come certi scrittori capaci d’arrivare subito al nucleo, spacca il cuore della partita in pochi tocchi. Sa che Spalletti gli concederà venti minuti, mezz’ora; e da fenomeno di arroganza tecnica si è convertito in asceta del gesto. Non crea più romanzi fluviali ma racconti fulminei. Vecchio al ponte di Hemingway in due pagine spalanca un mondo intero, un lancio di Totti in due secondi brucia sessanta metri – o l’infinito.

Un interrogativo si pone, adesso che il tramonto di Totti scolora pian piano nella sera; e cioè cosa questo calciatore avrebbe potuto realizzare fuori da Roma, intesa come società e come città. È una domanda che Totti medesimo ha sollevato più volte, riferendosi ai corteggiamenti del Milan, dell’Inter, del Real Madrid. La risposta non la conosceremo mai. Nel bellissimo romanzo 22/ 11/’ 63, in cui un uomo torna agli anni ’60 per proteggere John Kennedy dai colpi di Oswald, Stephen King sostiene che il passato è inflessibile. Jake Epping salva il presidente ma scatena una serie di conseguenze terribili, individuali e collettive.

Totti è stato ed è Totti anche perché è sempre rimasto a Roma; nella sua inflessibilità penetra, e di lì trae linfa, la radice del suo mito. Totti sboccia e matura in un ambiente unico, un habitat simile a quei luoghi in cui crescono piante che altrove non attecchiscono. Se lo spostiamo non abbiamo più Totti: il passato è inflessibile perché si compone via via delle nostre scelte, e le nostre scelte siamo noi. Totti a Roma ha vinto certo meno di ciò che avrebbe vinto a Milano o a Madrid, ma la estraneità alle grandi platee ne moltiplica l’aura. Come un fantasma si è aggirato presso le corti più sfarzose senza materializzarsi mai; perfino in Nazionale, dove pure molti allenatori gli hanno affidato il comando, era sempre più romano che italiano. La sua lateralità rispetto agli albi d’oro d’Europa lo rende agli occhi dei tifosi migliore di coloro che quegli albi riempiono, in un certo senso più puro. Totti è un assente giustificato dalla sua classe e dalla sua ritrosia, la traduzione calcistica del Deserto dei Tartari di Buzzati. Totti è un’eterna promessa mantenuta: la promessa che la bellezza non si compra e non si vende. Del resto funziona così: l’attesa e il desiderio trionfano su qualunque realtà, e nessuno al pari di Totti ha saputo farsi attendere e desiderare. Persino oggi, che sta per compiere 40 anni, continuiamo ad aspettarci da lui un guizzo, un colpo di tacco, l’ennesima storia da raccontare.

(La Repubblica – E. Macioci)



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