James Pallotta

(La Repubblica – E. Sisti) Perché il presidente Pallotta, già abbastanza navigato, dovrebbe stupirsi? In fondo non è la sua Roma, la Roma di sempre, la solita, seducente combinazione di superfici levigate, carta vetrata e pasta abrasiva? La può guidare Garcia, Spalletti o Di Francesco. A settembre poco cambia. Nessuno di loro ha saputo o saprebbe dove mettere le mani per ricucire i frequenti strappi di fine estate. A meno che non esistano maledizioni autoindotte, non è una maledizione questo fatto di essere già in crisi o in mezza crisi dopo appena una ventina di giorni, in cui s’è visto veramente poco. E Pallotta sta lì, in mezzo a questo oggettivo “poco”, al centro di questo malessere culturale che ha soltanto ereditato ma che ormai conosce bene: la Roma soffre di cicliche epidemie di sfiducia. Il vero problema della Roma, infatti, è che deve esserci sempre un problema da qualche parte, in qualche anfratto di società, meglio se anticipato e meglio ancora se difficile o impossibile da risolvere. Intrappolato in quella che dovrebbe essere “casa sua”, Pallotta prova a cementare quel che si può cementare.

Anzitutto prendendosela con chi aveva sostenuto a mezzo stampa che lui, il presidente, sarebbe già stanco del tecnico appena ingaggiato. Ieri è andato a Trigoria per verificare di persona la “sostenibilità” del presente e come un sensitivo ha cercato di stabilire quanta fosse la negatività e da dove filtrasse. Ha incontrato Di Francesco e gli ha stretto più volte la mano, “shakin’ & shakin’”, come se non l’avesse mai fatto prima. Poi gli ha ribadito la massima fiducia e il massimo apprezzamento per il lavoro svolto. Nessun dubbio e nessun ripensamento. E tutto a dispetto del momento psicologico, in cui le note stonate sembrano avere la maggioranza sullo spartito tattico (per poi dilagare fra i media). In campo la Roma si sta muovendo al minimo di scorrevolezza, meno è impossibile. Il più delle volte si mostra romanescamente “peciona”. E ogni balbettamento nel gioco innesca altre fragilità di sistema.

Pallotta non può evitare che il suono della paura di non essere all’altezza diventi un frastuono pubblico nel quale scompaiono anche le speranze e le rare note positive fin qui registrate (Kolarov?). Per difendere se stesso e il gruppo Di Francesco ha risposto a D’Alema da epigrammista consumato: «Per la salvezza chiederò consigli a lui che di vittorie se ne intende…». D’Alema ha replicato: «Non era una mia frase, tiferò per te». Sostenuto dal suo presidente, il tecnico trova assurda la gogna prematura, ma poi ammette: «La squadra cala troppo presto ma adesso basta, è ora di vincere». Sono passate solo poche ore di calcio, ha ragione Di Francesco, ma a volte anche quindici minuti di partita bastano per capirsi. E alla Roma ancora non è successo. Oggi c’è il Verona. Torna Florenzi. Schick in panchina. C’è tempo per imparare a cantare tutti insieme. Quindi non è giusto dire Roma sparita (forse non è mai apparsa). Però un po’ spaurita, a quanto pare, sì.



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