Roberto Mancini

PORTOGALLO-ITALIA MANCINI – Il secondo atto della Nations League è finito in maniera teatrale per l’Italia, che per la prima volta negli ultimi 20 anni non ha esibito juventini in campo: ha perso in casa del Portogallo e si ritrova già a rischiare la retrocessione in Lega B, non proprio il massimo dopo la mancata qualificazione al Mondiale. Al di là della scenografia, l’Estadio da Luz pieno e trascinante secondo prassi, la trama non ha avuto alcunché di spettacolare.

Rispondeva, del resto, a un tormentato intreccio edipico. I giocatori del Portogallo, orfani di Cristiano Ronaldo, erano chiamati a liberarsi dalla dipendenza e dalla nomea che, come al recente Mondiale, li bolla quali palle al piede del fuoriclasse. I giocatori dell’Italia, orfani delle vittorie e dei gol degli attaccanti, dovevano invece affrancarsi dal paragone con l’ingombrante passato della Nazionale. I portoghesi sono più o meno riusciti nell’intento, gli italiani proprio no.

Per guarire gli azzurri dal complesso della mediocrità, Mancini ha usato una duplice terapia d’urto, un po’ eccessiva. Da un lato ha provveduto a ben 9 modifiche della formazione schierata con la Polonia, col debutto di Lazzari e il rimpiazzo della coppia difensiva centrale Bonucci-Chiellini con Caldara-Romagnoli. Dall’altro ha plasmato una tattica più aderente alla tradizione e più consona alla necessità di non girare al largo dell’area avversaria: Chiesa ala e la coppia di punta Immobile-Zaza ricordavano il prototipo italiano del tornante e del centravanti affiancato da un partner più sgobbone e complementare.

Il sistema mirava a offrire più sbocchi offensivi e più aiuto in copertura al centrocampo, ma Immobile ha ripercorso le fresche orme del reprobo Balotelli, nella squadra a maggioranza milanista (4 titolari). Nel primo tempo la partita ha aderito agli stereotipi: barocco il gioco portoghese e romanico, cioè senza orpelli, quello italiano. L’attesissimo Chiesa ha patito l’emarginazione sulla fascia destra, né è riuscito a mettersi in moto, se non quando Immobile lo ha fermato al posto di Mario Rui. Jorginho si è tenuto a galla in mediana, ma non è riuscito a fare il regista: la presenza molto fisica di Carvalho, mal contrastato da Cristante (ex del Benfica), ha frustrato la maggior parte dei tentativi di avvio dell’azione dal basso.

Il progetto annunciato da Mancini – attaccare , a costo di rischiare il contropiede – si è incagliato ancora nei limiti tecnici degli interpreti: il più attivo era Zaza, tradito dalla frenesia. A causa della superiore fragilità, la difesa della Nazionale ha tremato per un pasticcio di Donnarumma in uscita, con salvataggio sulla linea di Romagnoli su tiro di Bernardo Silva, e per una fortuita traversa, su deviazione di Cristante a un cross di Mario Rui, che ha messo a nudo l’ingenuità di Lazzari terzino apprendista.

Stavolta l’intervallo non ha portato consiglio. Al primo affondo portoghese Caldara ha perso un banale contrasto con Carvalho: l’assist di Bruma ha concesso ad André Silva, con un sinistro a effetto a beffare Donnarumma, la nemesi contro il fresco passato a Milanello. Il portiere ha poi evitato il 2-0 con tre tuffi, su diagonali di Bernardo Silva, Pizzi e Renato Sanches.

La Nazionale, costretta a scoprirsi di più, si è offerta al contropiede. Mancini ha attinto invano alla panchina, per inserire Berardi: l’unica evidenza è stata la bocciatura di Immobile. Non a caso, dopo l’occasione migliore (testa di Zaza su corner, palla alta), è entrato anche Belotti. Ma il quartetto Berardi-Belotti- Zaza-Chiesa ha certificato il problema della Nazionale: 7 gol fatti nelle ultime 10 partite, media imbarazzante.

(La Repubblica – E. Currò)



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