Lo stadio Olimpico di Roma è molto bello, ma dalle curve per vedere la porta dal lato opposto ci vuole un buon binocolo”. Da tifoso qual era Giulio Andreotti, che così scriveva sull’Europeo nel 1987, fu uno dei più strenui sostenitori del “nuovo stadio” della Roma. Un sogno antico quello di dare alla squadra giallorossa uno stadio tutto per sé. Il primo che tentò di realizzarlo fu Dino Viola, il senatore andreottiano, presidente della Roma ai tempi dello scudetto e di Nils Liedholm. Anche lui inizialmente voleva costruirlo in un’ansa del Tevere, verso sud, nella zona di Magliana vecchia, poi ritentò con un’altra area, alla Romanina, allora di proprietà di Italcable. “È un mio regalo alla città”, disse. Ma il Partito comunista italiano (Pci), che contava tra i suoi parlamentari indipendenti l’ambientalista Antonio Cederna, gli fece la guerra. E il sindaco democristiano Nicola Signorello non se la sentì di dare l’ok.

La storia, trent’anni dopo, si ripete. Con protagonisti e risvolti inediti. Da una parte, l’italoamericano James Pallotta, che sei anni fa ha comprato la squadra giallorossa risollevandola dai debiti e ora vuole realizzare il suo business costruendo quello stadio tutto per la Roma che non è riuscito ai suoi predecessori. Dall’altra, il Movimento 5 stelle e Virginia Raggi, la sindaca che ha detto no alle Olimpiadi, stretta tra i tifosi della Roma e i militanti in piazza contro le colate di cemento, al suo primo braccio di ferro con i costruttori. A sorpresa, almeno per adesso, è finita con un sì. Anche il pronostico pronunciato da Beppe Grillo, che invitava a distinguere tra “palazzinari” e “costruttori”, si è rivelato inesatto. “Sì allo stadio ma da un’altra parte perché lì c’è un rischio idrogeologico”, aveva detto il garante dei cinquestelle sceso apposta a Roma per sostenere la sindaca.

“Lì” vuol dire lungo un’ansa del Tevere, a Tor di Valle, dove, al posto del vecchio ippodromo, costruito per le Olimpiadi del 1960 e chiuso dal 2013, il presidente giallorosso James Pallotta ha deciso di costruire il nuovo stadio della Roma. Su un’area che il piano regolatore destina a “verde privato attrezzato” e che, quanto al rischio idrogeologico, è classificata in gran parte come R3, cioè a rischio – ripete chi difende il progetto – non più dell’attuale stadio Olimpico, e nella parte più vicina al fiume R4, cioè a rischio più elevato.

Quell’area, però, non è di Pallotta: in larga parte appartiene a un costruttore romano, Luca Parnasi(fortemente indebitato con Unicredit, un po’ come lo era la Roma di Franco Sensi), che a sua volta l’ha comprata dai vecchi proprietari dell’ippodromo. Per questo il progetto presentato in Campidoglio nel 2014 è a doppia firma. Da una parte, lo stadio della Roma con ristoranti e spazi per il commercio, dall’altra tre grattacieli, le torri, destinate a diventare un centro direzionale che Parnasi ha fatto progettare da Daniel Libeskind, architetto di fama internazionale. In totale quasi un milione di metri cubi. Ovvero una superficie di 354mila metri quadrati contro i 112mila previsti nel piano regolatore. Solo 49mila per lo stadio, che rappresenta appena il 14 per cento del progetto; il resto, 305mila metri quadrati, tutti per il cosiddetto business park, destinato a imprese e privati che vorranno trasferirsi a Tor di Valle.

Una vera e propria nuova “centralità”, che dovrebbe sorgere attorno allo stadio. Così la definisce la delibera del 22 dicembre 2014 con cui l’amministrazione guidata da Ignazio Marino, sulla scia della legge per i nuovi stadi approvata dal governo di Enrico Letta, diede il primo via libera ai progetti di Pallotta e Parnasi. La delibera arrivò dopo una trattativa durata mesi, tutta incentrata sull’equilibrio tra quanto avrebbe potuto costruire il privato e quante e quali opere pubbliche avrebbe dovuto realizzare in cambio. Quel progetto a Ignazio Marino piaceva molto. Alla futura sindaca Virginia Raggi no. E infatti quando era consigliera comunale, dai banchi dell’opposizione, votò contro.

La delibera passò anche senza il voto dei cinquestelle. E il nuovo stadio della Roma insieme alle torri di Libeskind fu dichiarato “di pubblico interesse”. Da allora, sono trascorsi due anni. Marino non ha fatto in tempo a dare il via libera definitivo e nel frattempo i romani hanno affidato la città al movimento cinquestelle. Dalle parti della As Roma temevano il peggio. Ma l’iter per l’approvazione del nuovo stadio, tra una dichiarazione sibillina e l’altra, anche dopo l’elezione di Virginia Raggi, non si è interrotto. Anzi, l’assessore Paolo Berdini, pubblicamente schierato contro, nei mesi in cui ha lavorato accanto alla sindaca, ha fatto in modo che la giunta rispettasse i tempi e il 30 agosto 2016 ha trasmesso alla Regione Lazio il progetto definitivo. Rispetto al quale però gli stessi uffici di Roma capitale il primo febbraio hanno dato parere non favorevole.

Un grande favore ai costruttori
Arriviamo così a venerdì 24 febbraio, quando, a pochi giorni dalla chiusura della conferenza dei servizi, prevista per il 3 marzo, e dopo mesi di segnali alternati – si fa, non si fa – Virginia Raggi ha deciso. Lo stadio si farà e anche il resto. Senza consultare i romani, al contrario di quanto aveva fatto capire in campagna elettorale. Sull’area già prevista e non altrove, al contrario di quanto aveva detto Grillo. Ma con la metà delle cubature e una bella sforbiciata tutta a carico del business park, che sarà ridotto del 60 per cento. Insomma, niente torri, via i grattacieli disegnati da Libeskind, meno cemento. “Abbiamo evitato il progetto monstre ereditato dalla precedente amministrazione”, festeggia la sindaca su Facebook. Ma insieme alle cubature (resta da capire quelle restanti come saranno riprogettate) saranno ridotte nettamente anche le opere pubbliche che il privato avrebbe dovuto completare, a spese sue, prima dell’inaugurazione dello stadio. Per le cifre esatte bisognerà aspettare che l’accordo stretto a voce con James Pallotta e Luca Parnasi si traduca in atti ufficiali. Ma si parlerebbe di una riduzione di circa 10 milioni degli oneri di costruzione e di un taglio di circa 140 milioni alle opere a carico del privato.

“Un grande favore ai costruttori”, secondo l’ex sindaco Ignazio Marino. L’opera più consistente a carico del privato prevista nel progetto concordato con la passata amministrazione era il ponte sul Tevere con lo svincolo per collegare lo stadio all’autostrada Roma-Fiumicino. Costo stimato nella vecchia delibera: 93,7 milioni. Secondo gli accordi presi il 24 febbraio, ponte e svincolo potranno essere realizzati anche in un secondo momento, a spese pubbliche. Con i fondi già stanziati dal Cipe per il ponte dei Congressi, a cui però a quel punto si dovrebbe rinunciare. Proprio il contrario di quello che suggerisce di fare l’Istituto nazionale di urbanistica: rinunciare al ponte per lo stadio e concentrare tutte le risorse su quello dei Congressi, che sarebbe più utile alla città e comunque potrebbe essere sfruttato anche dai tifosi. Intanto, allo stadio, in macchina, ci si arriverà dalla via del Mare e dalla via Ostiense, due strade molto strette e trafficate, che con 38,6 milioni di euro (cifra preventivata nella delibera Marino) saranno messe in sicurezza e unificate a spese del privato, come previsto nel progetto originario. Così come a spese del privato sarà la messa in sicurezza del fosso di Vallerano, per ridurre il rischio idrogeologico.

E il trasporto su ferro? Salta definitivamente il prolungamento della linea B della metropolitana, dalla stazione Magliana fino a Tor di Valle, che (sempre secondo la delibera Marino) sarebbe costato 50 milioni, a carico del privato. Allo stadio ci si arriverà con la vecchia Roma-Lido. I fondi per adeguare la linea sono quelli già stanziati da stato e regione. Mentre il privato contribuirà in parte al rifacimento della stazione e in parte all’acquisto di nuovi treni. La delibera approvata dall’amministrazione Marino, lasciando aperte le due strade (metro B o potenziamento della Roma-Lido), puntava a garantire in un modo o nell’altro che almeno la metà dei tifosi potesse arrivare allo stadio attraverso una linea ferroviaria. Sedici treni all’ora. Oggi sulla Roma-Lido c’è un treno ogni quarto d’ora, in teoria, ogni dieci minuti nell’ora di punta. L’adeguamento previsto sarà sufficiente? E avverrà in tempo per l’inaugurazione dello stadio?

In ogni caso, il taglio di queste opere cancella di fatto la delibera con cui l’amministrazione Marino riconosceva il nuovo stadio come progetto “di pubblico interesse”. La giunta Raggi dovrà predisporre e portare in consiglio comunale una nuova delibera, con costi e benefici dell’opera, da chiarire e sottoporre al voto dell’aula. L’As Roma chiederà di prorogare di 30 giorni la conferenza di servizi, ma basterà? E ammesso che l’amministrazione Raggi faccia in tempo, non è detto che non debba essere comunque convocata una nuova conferenza di servizi. L’iter così ricomincerebbe da capo.

Ci sono poi gli ostacoli posti dalla soprintendenza per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio del comune di Roma, che a gennaio ha avviato la procedura per dichiarare il vecchio ippodromo di Tor di Valle, ormai in rovina, un manufatto “di interesse particolarmente importante a causa del suo riferimento con la storia dell’arte (architettura), della scienza, della tecnica e dell’industria di questo paese” e per porre un vincolo storico sulla tribuna progettata da Julio Garcia Lafuente, “esempio rilevante di architettura contemporanea”, “un unicum da un punto di vista dimensionale, avendo una copertura costituita da 11 ombrelli a forma di parabolone iperbolico, ciascuno delle dimensioni di 814 metri quadri, sostenuto da un unico pilastro, con uno sbalzo di ben 19,5 metri: il più grande al mondo per questa tipologia strutturale”.

Così recita la comunicazione firmata dalla soprintendente Margherita Eichberg a gennaio scorso a tutela del manufatto che nel progetto di Pallotta e Parnasi andrebbe invece demolito. E la stessa soprintendente ha poi inviato un parere molto critico a governo e ministero dei beni culturali, che ripercorre le valutazioni fatte nei mesi scorsi dallo stesso segretariato generale del ministero e dalla direzione generale arte e architettura contemporanea e osserva come “il proponente non ha esplicitato in alcun modo le ragioni per cui non ha vagliato la gamma delle alternative che scaturivano dall’insieme delle prescrizioni del ministero per i beni culturali e ambientali (Mibact) motivate da regimi di tutela a cui le aree sono assoggettate”.

Analizzato l’impatto sul paesaggio e sul territorio, Eichberg conclude poi che il progetto, in deroga al piano regolatore e alla Carta per la qualità del piano che censisce l’ippodromo tra i beni di interesse urbano, “non risulta conforme alle norme paesaggistiche vigenti”, è concepito “senza la cognizione effettiva dei valori e delle problematiche legate alla conoscenza del territorio”, “non contiene alcuno studio archeologico” e “risulta non avviata la procedura di archeologia preventiva necessaria per legge”, richiesta più volte dalla stessa soprintendenza. Non solo. Ma chi vuole costruire, secondo la soprintendenza, non ha ancora la proprietà di tutte le particelle di terreno necessarie al completamento dell’opera, ci sono delle carenze nella documentazione e manca anche la variante al piano regolatore, che dovrebbe essere approvata da Roma capitale prima della conclusione della conferenza dei servizi e non dopo. E anche alla voce rischio idrogeologico, evocato dallo stesso Beppe Grillo, nel parere si legge che “storicamente l’ansa di Tor di Valle costituisce area di esondazione del fiume Tevere”. Mentre gli interventi previsti sul fosso di Vallerano per ridurre il rischio esondazioni modificherebbero in quel tratto la “morfologia naturale dell’alveo” del Tevere.

Un motivato dissenso
Un capitolo a parte è dedicato ai grattacieli disegnati da Daniel Libeskind, che la giunta Raggi ha deciso di eliminare dal progetto. “Tre torri di circa 220 metri”, “visibili da Belvedere e punti panoramici” altererebbero, secondo la soprintendenza, “panorami consolidati nell’iconografia e nell’immagine collettiva”. Tagliate le torri, restano però le altre preoccupazioni, espresse anche dai “comitati tecnicoscientifici per le belle arti, il paesaggio, l’archeologia, l’arte e l’architettura contemporanea”, che si sono riuniti il 23 gennaio.

Parere negativo anche da parte loro, perché tra l’altro “non risulta ancora attivata la procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico, richiesta più volte dalla competente soprintendenza, mentre in allegato al progetto non è stato presentato uno studio delle interferenze tra le nuove opere e le evidenze archeologiche”. Quanto all’ippodromo, secondo i comitati, è “inaccettabile” anche la proposta di demolirlo lasciando in piedi “qualche campata delle tribune, soluzione che pure è stata ipotizzata come alternativa alla demolizione dell’intero complesso”.

Tutto questo si traduce in tre righe: “Questa soprintendenza esprime motivato dissenso alla realizzazione dell’intervento non ravvisando condizioni per la sua ammissibilità nel sito proposto”. Un parere che dovrà essere rivisto alla luce dei nuovi accordi stretti dalla sindaca per la realizzazione del nuovo stadio. “Uno stadio fatto bene”, assicura Virginia Raggi. Ma certo la via del sì da lei scelta è ancora molto lunga.

Intanto la Lazio, preso atto “con piacere che sono state superate le remore legate ai vincoli delle sovrintendenze e idrogeologici”, si prenota per costruire un altro impianto, riservato ai tifosi biancocelesti. Un vecchio pallino del presidente Claudio Lotito, che già nel 2005 chiese al comune di Roma di poter costruire uno stadio della Lazio a nord della città, sempre lungo il corso del Tevere, in un’area a rischio esondazioni. Quel progetto fu respinto. Ma adesso Claudio Lotito chiede la par condicio. E si dice sicuro che l’amministrazione capitolina “non creerà discriminazioni tra i cittadini romani in base alla fede calcistica”.

(Internazionale – M. Gerina)



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