Forse è stato il dio Tevere, a chiedere all’eroe in lacrime la rinascita. Il dio del fiume che scorre oltre la tribuna e le dà il nome, l’anima che la città dimentica di avere. Dev’essere stato il Tevere. Perché si è fermato proprio lì, improvvisamente, Francesco Totti, dopo un lentissimo mezzo giro di campo. Si è appoggiato, ha chinato il volto sul petto e tutte le lacrime che aveva nascosto nella nuca dei figli e della moglie e che si era asciugato mentre tirava dritto sulla pista olimpica sono venute giù finalmente senza più bisogno di nasconderle. Perché nasconderle, poi? Piangevano tutti qui dentro. Piangevano i vecchi che lo hanno visto arrivare ragazzino, una piuma di genialità e sfrontatezza pronta a fare le promesse che tutti a Roma aspettano sempre. Piangevano i coetanei che sono cresciuti insieme a lui e non hanno mai vissuto una Roma senza. Piangevano i ragazzi che lo hanno visto re. E piangevano i ragazzini che lo hanno visto monarca in lotta per non essere deposto. Piangevano tutti senza ritegno. Donne e uomini, vecchi e bambini. E non era mica l’angoscia accumulata mentre si viveva il più classico degli psicodrammi romanisti nei novanta minuti che erano l’addio e anche una partita decisiva. Il sole accecante di fine maggio e l’indecisione assoluta: pensare solo a come questo eroe infinito sfiorava gli ultimi palloni per liberare un tiro o soffrire per un disastro calcistico che sembrava dietro l’angolo? Niente di quell’angoscia che aveva soffocato l’aria di festa debordava ora nelle lacrime di settantamila persone. L’agonismo si era spento in un attimo. E infatti quando Totti è rientrato in campo e ha cominciato a passeggiare con una lentezza disarmante, non so cosa sia successo ma Roma si è trasformata e per una serata l’epos delle sue storie infinite ha superato ogni confine. Ma quale epos e quali storie? Impossibile dirlo. Ognuno ha la sua, il suo momento indimenticabile. Il giorno in cui il capitano con un sorriso beffardo prese il pallone e se lo portò sotto la curva. Il momento in cui con una magia il pallone invece lo spostò da una parte e dall’altra eppoi lo fece filtrare illuminando un campo che pareva oscurato dalla nebbia. La volta che il pallone neppure lo prese ma prese una gamba con rabbia. E quel pomeriggio in cui il campo era un lago e lui ci nuotò dentro e all’ultimo minuto… Era poco tempo fa, quel giorno epico. E forse è la mia storia preferita di quest’anno. Ma ognuno ha la sua: la sfida persa, la sfida vinta, la sfida che si sarebbe potuta vincere se. E quella che non si è vinta mai e va bene così. Ognuno ha la sua e ognuno pensava alla sua fino a quando l’eroe in lacrime si è ritirato su e ha ripreso a passeggiare verso la curva più amata. Allora un pallone vero gli si è avvicinato. L’ultimo pallone. Lo teneva in mano il suo amico e glielo porgeva e lui lo rifiutava. Si allontanava. Non lo voleva vedere. Forse era meglio pensare ancora agli ultimi tocchi prima del 95’. Quando avevamo ammirato il re della bandierina, il ragazzo che imparò a portar lì il pallone per danzarci attorno e aspettare la fine. Lo aveva fatto anche stavolta, con la classe infinita, con il tocco magistrale, le finte, le carezze, e i minuti erano passati anche stavolta e la partita era finita. Eccole le storie vere. Non lo voleva adesso, quell’ultimo pallone. Ha continuato a passeggiare, a inchinarsi davanti ai suoi tifosi e a scansare l’amico. Poi a un tratto si è voltato di nuovo, di scatto, come preso da un demone e magari è stato ancora una volta il Tevere a chiamarlo. Il tempo del fiume detta legge. Allora si è deciso, Francesco Totti. Ha preso quel pallone. Ha agguantato un pennarello, ha cincischiato come si fa a Roma quando si vuole perdere ancora un altro minuto, un altro secondo, solo un altro secondo. Poi lo ha scritto, quel che gli rompeva il petto. “Mi mancherai”. Ha cincischiato un altro po’. Ha firmato. Si è voltato. Sembrava che volesse portarselo via. E invece come ha sempre fatto fin da quando era un pischello e nessuno gli credeva davvero, si è voltato e lo ha scagliato in curva. Qualcuno deve averci rimesso la pelle per accaparrarselo, quell’ultimo pallone. E infatti lui ha fatto uno strano gesto sornione e forse per un attimo dentro di sé è scoppiato a ridere.

(La Repubblica)



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