Rassegna stampa
Maradona, contro l’Inghilterra un’opera d’arte in dieci secondi: così si è regalato l’immortalità
ULTIME NOTIZIE MARADONA ARGENTINA-INGHILTERRA MESSICO 1986 – Gli bastarono poco più di dieci secondi per compiere il capolavoro e regalarsi l’immortalità. Già, perché osservando quell’azione e quel gol, che la Fifa ha votato come il migliore del secolo, si percepiscono ancora, a distanza di tanto tempo, la sfrenata allegria, il coraggio ai limiti della temerarietà e la leggerezza che soltanto i grandi possiedono e hanno il dono di saperla trasmettere, riferisce la Gazzetta dello Sport.
Quel prodigio, giacché di prodigio e non di una semplice rete si tratta, è una risposta alla morte: è il segno che Diego Armando Maradona regalò ai contemporanei e ai posteri. Un’opera d’arte che, anno dopo anno, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, verrà raccontata continuando ad alimentarsi di se stessa: non c’è bisogno di aggiungere altro, è tutto lì dentro, è sufficiente accendere un qualsiasi computer, digitare su un motore di ricerca «Gol del Secolo» e ci si troverà davanti alla Bellezza.
Accadde allo stadio Azteca di Città del Messico, in un pomeriggio di sole giaguaro. Era la prima domenica d’estate, il 22 giugno del 1986. La sfida tra Argentina e Inghilterra non era una normale partita del Mondiale: era il quarto di finale, chi vinceva entrava nel Gotha del calcio, e soprattutto era la replica in termini sportivi della Guerra delle Falkland (Malvinas per gli argentini).
Maradona sentiva più di altri il momento, sapeva di avere l’intero Paese sulle spalle, nelle orecchie gli risuonavano i canti del popolo che prometteva di farlo re se avesse avuto la forza di guidare l’Argentina sul tetto del mondo. Diego era il simbolo di un riscatto sociale che una nazione intera cercava, dopo aver attraversato il dolore dei desaparecidos e la feroce dittatura militare. Al minuto 5 del secondo tempo, per prendersi la gloria, Maradona scelse una scorciatoia: andò in elevazione per colpire il pallone sull’uscita del portiere Shilton, ma anziché la testa ci mise il pugno. Gol, l’arbitro non si accorse di nulla. Per tutti quella diventò la Mano de Dios.
Un gesto antisportivo, una palese irregolarità che, nell’enfasi, venne sì sottolineata ma derubricata a banale furberia. Allora Maradona, forse consapevole di aver tradito se stesso con quel gesto, decise di farsi perdonare. E lo fece nel modo più clamoroso. Anche Caravaggio, in fondo, venne accusato di aver ammazzato un uomo, e per questo fu inseguito dai gendarmi tutta la vita, ma seppe chiedere scusa regalando capolavori come La Vocazione di San Matteo.
Diego si comportò proprio come un penitente: doveva redimersi. Al minuto 10, esattamente trecento secondi dopo il peccato, si fece consegnare il pallone dal compagno Héctor Enrique. Era ancora nella sua metà campo, con un piroetta si liberò di due centrocampisti inglesi che lo marcavano a distanza e cominciò quella che ai più parve una folle corsa contro un destino già segnato. Dove poteva andare? Che cosa voleva fare? Un’azione simile nessuno l’aveva mai tentata: già soltanto immaginarla era un atto d’incoscienza.
Maradona non pensò, fece semplicemente in modo che le gambe si muovessero veloci e che il pallone non si staccasse mai dal suo piede. Per il resto sarebbe venuta in soccorso la fantasia, che di certo non gli mancava. Gli si pararono incontro i nemici e lui li saltò con una facilità impressionante, proprio come i bambini evitano gli ostacoli nelle partitelle di strada.
Mano a mano che si avvicinava all’area di rigore inglese, gli spettatori dell’Azteca e quelli comodamente seduti davanti alla televisione sgranavano sempre di più gli occhi: non riuscivano a credere a ciò che si stava verificando, neanche fosse un fenomeno soprannaturale. Diego percorse sessanta metri in poco più di dieci secondi (10 secondi e 45 centesimi per l’esattezza) e lo fece senza mai perdere il controllo della sfera. Superò, durante quell’azione, Hoddle, Reid, Sansom, Butcher, Fenwick e il portiere Shilton in disperata uscita. Alla fine, con tocco morbido e rabbioso allo stesso tempo, depositò il pallone in rete e andò a godersi la felicità della gente vicino alla bandierina del calcio d’angolo.
Tutti, in quell’istante, avrebbero voluto abbracciarlo, avrebbero voluto dirgli che era il più grande, il superuomo, un dio in terra. Tutti erano argentini, in quel pomeriggio torrido di Città del Messico. Anche gli inglesi, delusi sì ma straniti da tanta bellezza, avrebbero voluto complimentarsi con l’avversario che aveva dimostrato la sua superiorità.
Il telecronista Victor Hugo Morales, uruguaiano di nascita e argentino d’adozione, si lasciò andare alle lacrime e urlò nel microfono: «Queiro llorar! Dios Santo! Viva el futbol». E poi, sempre in trance, si chiese ciò che tutti, in ogni parte del mondo, si chiedevano in quell’attimo: «Da quale pianeta sei venuto?». Già, da quale pianeta? Perché con quell’azione, con quel gol, Maradona aveva segnato una distanza tra lui e l’uomo normale. Era qualcosa d’irripetibile ciò si era visto sul prato dell’Azteca, qualcosa che sarebbe appunto entrato nella storia come accade alle opere d’arte. E lui, Diego, facendo un simile dono al popolo del calcio, si era fatto perdonare la colpa di cinque minuti prima. Negli spogliatoi disse: «Sul primo gol è stato Dio a darmi una mano, sul secondo sono stato io a fargli un regalo». Immenso anche nelle parole. Di più: eterno.
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