Monchi, direttore sportivo della Roma, ha rilasciato un’intervista a Il Romanista parlando della sfida tra i giallorossi e il Liverpool in programma mercoledì sera all’Olimpico.
Ha letto il comunicato della Curva?
«Sì. Prima di tutto mi piacerebbe parlare di Sean Cox, dando continuità a quello che ha detto Pallotta. Il calcio e la vita sono due cose diverse in questo caso, io sono molto cattolico e prego per lui e la sua famiglia. Siamo esseri umani, spero che lui possa tornare a tifare per la sua squadra».
Avete avuto contatti diretti con la famiglia?
«Personalmente no, ma sono stati Mauro (Baldissoni ndr) e Umberto (Gandini ndr), con il presidente, a curare questo aspetto. Tornando alla domanda di prima, ho letto quei comunicato, so che non è nemmeno una cosa così solita: siamo di fronte auna partita unica. La storia di questa società dice che solo due volte c’è stata questa possibilità. Nell’84 e ora. E questo il momento di dimenticare qualunque cosa e tifare per la squadra. I ragazzi della Sud hanno detto che devono portare bandiere e voce. Io dico di più».
Che cosa?
«Mi piacerebbe che Roma fosse colorata di giallorosso. Già oggi. Che tutti i tifosi romanisti esponessero le bandiere sui balconi e facessero capire al mondo che Roma tifa Roma. In questo momento in cui si parla di violenza, facciamo capire che il tifoso della Roma non è violento. È il momento di essere uniti. Battere il Liverpool è più difficile che battere il Barcellona. Non esiste domani, finisce tutto mercoledì, non dobbiamo lasciare dentro niente. Ogni nonno, nipote, figlio, padre, madre: mercoledì giocano tutti. Lo ho avuto la fortuna di vincere tanto a Siviglia, ma mai avevo sognato di arrivare in finale di Champions. Lo dicevo a mia moglie: ho sognato tante cose e tante ne ho realizzate, ma nella mia testa non c’è mai stata la finale di Champions. Tutti dobbiamo fare quello che dobbiamo fare».
La squadra è convinta?
«Penso di sì. Ma non significa che sia facile, non so se avete letto gli striscioni nello spogliatoio».
Sì, dove le ha scelte quelle frasi?
«Ce le avevo in testa… A volte mi piace portarle fuori, altre volte è meglio tenerle dentro. Credo che la squadra sia convinta di potercela fare, nella consapevolezza che sia difficile. Il Liverpool ha il vantaggio del risultato, noi abbiamo l’Olimpico. Loro il 5-2, noi lo stadio».
Sono un segnale di maturità le vittorie su Spal e Chievo?
«Essere qui a parlare di una finale è già un segnale di crescita. Penso che non dobbiamo fermarci qui, indipendentemente da quello che faremo. Non è solo in ballo la qualificazione, ma il modo in cui affronteremo la gara. Fare una partita da grande squadra, è già uno step fatto».
Che ha imparato di nuovo da Di Francesco in questi giorni?
«È difficile trovarlo, come dire?, fuori strada, fuori da se stesso. Dopo un anno di lavoro, in cui abbiamo vissuto momenti difficili, ho sempre trovato una persona serena, mi è piaciuto come ha gestito i momenti complicati. È’ importante anche per il mio lavoro trovare di fronte a me una persona equilibrata. Se hai di fronte una persona che ogni giorno cambia i propri gusti, non sai cosa fare».
Avete ripensato quello che è successo a Dzeko a gennaio? Sarebbe stato un errore venderlo?
«Due cose: se Edin fosse andato via, avremmo portato qualcuno. Il futuro non si può prevedere. Altra cosa: pensate che se la Roma avesse voluto privarsi al cento per cento di Dzeko non lo avrebbe venduto? Che non avremmo aiutato il Chelsea a convincere Edin? Penso davvero che nessuno dei tre fosse convinto. Noi perché conosciamo le sue possibilità. Lui perché è felice qui. Il Chelsea perché il profilo di un trentaduenne non corrispondeva ai loro programmi. Capita che tratti, ma non sei convinto e pensi a come uscirne. Nessuno era convinto. Edin è uscito prima di Emerson».
Cioè?
«E’ arrivata prima la possibilità di cedere Dzeko, piuttosto che Emerson. La cessione di Emerson ci ha aiutato a essere più tranquilli. Quando si complica Emerson, andiamo un po’ in fatica, perché dobbiamo vendere. Per questo il percorso di Edin è stato più lungo. Non è facile negoziare sapendo che hai bisogno di soldi. Quando abbiamo trovato l’accordo per Emerson, è stato più semplice uscire dalla questione Dzeko».
Il dubbio che aleggia sulla filosofia della Roma è questo: se oggi la Roma avesse Totti a 26 anni, lo venderebbe?
«Non lo so, magari trovi altri calciatori che ti consentono di non vendere Totti. Come nel caso Salah. Mica sono stupido. Oggi siamo in una situazione diversa, ma un anno fa… I numeri della Roma sono pubblici. La Roma vende Salah, Paredes, Rudiger e chiude sotto di 42 milioni. Non è stato facile, dovevamo trovare soluzioni, ora è diverso. Vendere dipende da noi. È cambiata la situazione, non so se totalmente, ma comunque tanto. Continuiamo con un’ambizione forte».
La domanda è legata anche all’appartenenza. Sono incedibili “certi” giocatori bandiera?
«I tifosi tifano per i calciatori e per il successo. Totti è una cosa diversa, come Daniele. Se dici a un tifoso vendo Edin ma vinco lo scudetto. tutti direbbero “va bene”. Comprendere la propria squadra per me significa anche capire questo. Sai che loro sono l’ultima cosa che devi toccare. Vendi la macchina, vendi un gioiello, per ultimo vendi la casa di tuo padre. Sai quali sono le priorità. Noi abbiamo venduto la macchina. Oggi le cose sono cambiate, non siamo in una situazione perfetta, ma migliore si».
Mai pensato di aver sbagliato scelta?
«Mai. Magari dovevo capire meglio dove ero arrivato. lo sono metodico e mi sono fidato dell’istinto. Ho fatto il fenomeno, ho pensato che potevo ripetere Siviglia».
Il Real l’ha cercata?
«Florentino non mi ha mai chiamato».
E il PSG?
«Sì, ma è diverso. Come l’Inghilterra. Ma avevo bisogno di un posto in cui potevo fare il direttore sportivo tradizionale».
FOTO: Credits by Shutterstock.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA