Josè Mourinho

AS ROMA NEWS MOURINHO – José Mourinho è tornato a parlare. Lo Special One ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello Sport trattando vari argomenti: dalla finale di Budapest, al rapporto con Tiago Pinto fino alla scelta di accettare l’offerta dei Friedkin. Con un occhio alla rosa attualmente a disposizione.

Queste sue parole: “Firmai per la Roma perchè quando incontrai i Friedkin mi piacque molto il loro modo di parlare. Quelle parole mi toccarono nel profondo, di questo avevo bisogno. “Pensiamo che tu sia la persona giusta per aiutarci a rendere la Roma un club più grande”, aggiunsero. Trasmisero il loro entusiasmo, mi piacque la prospettiva di un progetto diverso, tre anni di contratto, una crescita progressiva, qualcosa che in precedenza non avevo mai preso in considerazione”.

Spiegati meglio.
«Ad esempio, i tanti giovani, che ho fatto esordire, giovani che con me sono cresciuti in questi due anni. Quando lavori in un club come il Real Madrid, il Manchester, il Chelsea, se lanci un giovane a stagione hai già fatto il massimo. In questa fase della carriera avevo bisogno di stabilità, sentivo che qualcosa in me era cambiato. Prima volevo e dovevo arrivare, fare, spostarmi, vivevo uno stato di costante irrequietezza. Ero in un posto, facevo il mio lavoro, vincevo e mi spingevo oltre, volevo andare a vincere da un’altra parte»

Ha rischiato parecchio, però. I paletti del Financial Falr Play, il mercato a zero, la condanna ad adattarti all’emergenza. Anche questa è la Roma. oggi.
«Real, Inter, United, Chelsea due volte, a quei livelli il profilo è molto, molto chiaro. Gli investimenti, la storia del club, gli obiettivi tutti altissimi: arrivi per vincere e vincere subito. Quando ho firmato con la Roma sapevo perfettamente a cosa andavo incontro».

Fatico a crederti.
«Devi farlo. Ovviamente per me tornare in Italia non significava andare incontro all’ignoto, questo è un Paese che conosco bene a livello culturale, storico e sportivo. Sapevo che sul piano sociale la Roma era un dub assolutamente fantastico, ma anche che dal punto di vista della storia calcistica aveva vinto poco, nonostante tantissimi bravi allenatori e tantissimi giocatori di prima fascia, e investimenti anche. Quando conosci la realtà romanista ti chiedi perché si sia vinto così poco. Possibile che tu, nuova proprietà, non possa fare qualcosa di diverso per aiutare il club? Se adesso mi domandi se sono pentito della scelta, rispondo di no. Assolutamente no».

Beh, in questi due anni qualche attimo di sconforto l’hai vissuto.
«Frustrazione si, momenti di frustrazione».

Nel secondo anno le cose sono peraltro peggiorate, in termini di risorse a disposizione.
«Il primo anno conoscevo la situazione, percepivo la voglia della proprietà di crescere e ho pensato: ok, questo è perfetto per me. Un profilo come Il mio, uno che ha vinto tanto, di solito non accetta facilmente un progetto potenzialmente minore. Mi viene in mente solo Ancelotti all’Everton».

E prim’ancora al Napoli.
«Quando uno come noi accetta questo rischio, la gente pensa “è finito”, poi Carlo va al Real Madrid e vince rutto quello che c’era da vincere. Questa esperienza a Roma è stimolante, ricca, di una ricchezza su più piani. Oggi ho un rapporto con i miei giocatori che non è facile instaurare in un top club».

C’è chi pensa che tu abbia accettato la Roma soltanto perché, dopo tutte le esperienze fatte, ti sei ritrovato un mercato ristretto
«Non è una mia preoccupazione».

Cosa tl preoccupa allora?
«La mia felicità. Qualche giorno fa commentavo col tavolo dei miei a Trigoria una delle prime cose che il Papa ha detto a Lisbona. “Dovete ridere, dovete scherzare, pensare positivo, dovete coltivare il sanse of humour”. Il mio tavolo ha tutto questo».

Ecco spiegato l’abbraccio ai centravanti immaginario.
«Anche, a volte leggo che Mourinho sta provocando la società, che Mourinho è un mago della comunicazione».

Non mi dirai che non è vero.
«Ripensi che io stia scherzando, ma Nuno, che è qui con noi, sa bene come stanno le cose, i piedi incrociati sul tavolo li metto venti volte al giorno».

Sl, però l’estate scorsa avevi il computer spento davanti ai piedi e stavi sottolineando l’impossibilità di fare acquisti.
«In seguito però non c’è stato alcun retropensiero. La foto con l’attaccante immaginario è stata fatta per ridere».

Ridere per non incazzarsi…
«Nelle ultime settimane ho visto allenatori in fibrillazione, uno che minaccia di andar via perché non è contento del mercato, un altro che se ne va per la stessa ragione. Ce n’è un terzo che scherza con i tifosi e dice che non stiamo facendo mercato. Nessuna provocazione, non era quella l’intenzione».

Per cui, va tutto bene.
«Non va tutto bene, ma mi diverto anche nelle difficoltà. Mi arrrabbio per un’ora e subito dopo torno positivo. Non mi deprimo, non minaccio, non dico che mi hanno promesso mari e monti e non vedo né i mari né i monti. Una cosa che non posso cambiare è la mia natura, non sono uno che racconta cazzate. Relativamente all’attaccante immaginario, posso dirti che anche se la settimana prossima arrivasse Mbappé sarebbe comunque in ritardo».

Sai come si dice a Roma? Dormi tranquillo, José.
«Questo per dire che dopo 28 giorni di lavoro, 31 allenamenti e 6 partite, in tutto 37 sedute, più riunioni di analisi tattica e altro, non avere un attaccante è un problema. A proposito, non fate casino con Belotti, resta e farà una stagione molto più produttiva».

L’hai voluto tu o Pinto?
«Io, sì io. Però…».

Però?
«Dopo la partenza, tra virgolette, di Tammy, siamo in una situazione che nessun allenatore al mondo gradirebbe. Mi riesce impossibile dire che sono contento. Però sostenere che sono in guerra aperta con la società, con Pinto, che non sono felice, è sbagliatissimo. Pinto sa che siamo in ritardo, anche la propiietà lo sa, alla fine quello che soffre veramente è chi lavora e chi contro la Salernitana dovrà entrare in campo con la miglior squadra possibile. Incazzato no, depresso no. Scherzo, come vuole il Papa, soprattutto nelle difficoltà, lui ripete che le difficoltà fanno parte della vita, senza le difficoltà è più difficile provare grandi gioie. Vent’anni fa avrei fatto casino, vent’anni fa sarei stato incazzato. Dal mio primo Chelsea me ne andai perché ero realmente in guerra con un direttore sportivo. Non mi piaceva, non avevo rapporto, il mercato un disastro, era il 2008. Oggi siamo nel 2023 e sono un altro».

Parliamo del tuo rapporto con Tiago Pinto. Chiariscilo una volta per tutte. 
«Non è una cosa nuova per me. Le persone possono avere una percezione diversa, ma io ho sempre avuto un eccellente rapporto con le società in cui ho lavorato. Me ne sono andato per mia decisione quando sentivo che era giunto il momento. Eccezion fatta per il Tottenham, esonerato due giorni prima di giocare una finale, una cosa pazzesca».

Il fatto di essere uno straordinario comunicatore ha sempre messo in secondo piano la grandezza del tecnico. Ti viene spesso rimproverata la scarsa qualità del gioco.
«Lo sport è fatto per vincere, anche se sei in una squadra di minore qualità o in uno sport individuale. Quando Jacobs affronta sui 100 un ragazzino che fa 12 e 5, il ragazzino sa di non avere la possibilità di batterlo, tuttavia quel giorno Jacobs potrebbe fermarsi dopo 10 metri e il ragazzino avrebbe un’opportunità da sfruttare. Non si parte mai per non vincere, ogni volta che sento parlare di qualità senza vittorie dico che si tratta di una delle tante bugie di un mondo in cui sono spariti la meritocrazia, il pragmatismo dei risultati e la crudeltà della sconfitta. Sfruttando la potenza del social media vengono fatti passare concetti e valutazioni drogati. Si spacciano per grandi allenatori personaggi senza titoli, invece io credo che il valore corretto lo determini la carriera. Quando finirà la generazione di Carlo, la mia e di altri della stessa età che hanno vinto tanto, dubito che ritroveremo carriere altrettanto lunghe e di successo. I nuovi fenomeni verranno masticati in fretta. Oggi l’allenatore bravo arriva con più velocità e con la stessa velocità viene sostituito da altri fenomeni passeggeri. Prima era il pragmatismo dei risultati che rendeva bravo un allenatore, era la crudeltà di una sconfitta che costringeva un professionista ad andare in A, B, C a battagliare per cercare di tornare a quel livello».

Cosa hanno capito di te i tifosi della Roma? L’adesione a Mourinho è pazzesca
«Hanno capito quello che gli altri tifosi delle mie squadre avevano capito. Soltanto al Tottenharn non ho provato le stesse sensazioni, non c’è stata empatia, ma era il periodo del covid, lo stadio era vuoto. Impossibile creare un rapporto. I tifosi della Roma hanno capito una cosa molto, molto semplice: quando arrivo in un posto, indosso quella maglia e non la tolgo più per tutto il giorno, mi manca giusto il pigiama, cerco di capire il pubblico, le sue idiosincrasie, le sue debolezze, la sua forza, quello che può piacergli, che è importante e divento uno di loro. Per strada l’interista mi saluta sempre con gioia, il madridista pure, in Algarve il nostro albergo era pieno di inglesi del Chelsea. Ml hanno rotto i coglioni (sorride, ndr) tutti i giorni, legend, legend, legend, foto, autografi. Poi ho trovato un messicano tifoso del Real, stesso trattamento. A Roma entro nel terzo anno, non è una cosa che ho fatto spesso»

Già, insolito.
«Due percorsi che hanno portato a due finali europee. Due percorsi differenti con grandi difficoltà a tutti i livelli, penso che la gente abbia capito che sono uno di loro. Nel libro chè hai scritto su di me abbiamo parlato del mio cambiamento, oggi sono molto meno egoista, più altruista. Quando un allenatore con 25 titoli, adesso sono 26, arriva in una città, in un club, incontra un popolo che non ha vinto tanto, deve entrare subito in sintonia con quel popolo e con la squadra».

In effetti sono due mestieri diversi.
«Quando alleni in un club storicamente top, i giocatori hanno una sola cosa da imparare da te ed è giocare da squadra, perché sono giocatori fatti, esperti, con una qualità straordinaria A volte sono stato io a imparare qualcosa dai giocatori. Chiedi a Allegri, Carlo, Ranieri, sicuramente ti diranno che durante la carriera hanno imparato anche dai giocatori, perché in campo hanno una percezione diversa dalla nostra. Io sono venuto Roma e ho dovuto creare giocatori che non esistevano, i “bambini” che ho portato in prima squadra non esistevano. Sono entrati in un gruppo al quale ho, abbiamo cercato di trasmettere la responsabilità di vincere. Anche se non vinciamo tanto e se tante volte perdiamo il nostro scopo è insegnare a vincere. La contraddizione tra le nostre ambizioni e il nostro potenziale mi intriga. Preferisco questa contraddizione, il nostro’ obiettivo è vincere la prossima partita, mi rifiuto di dire che abbiamo obiettivi superiori. Se mi obbligano a dichiarare obiettivi concreti rispondo che sono inferiori alla nostra ambizione, che sono inferiori a quello che noi vogliamo sviluppare come mentalità».

In particolare quest’anno hai avuto un pessimo rapporto con le istituzioni e con gli arbitri. Ti hanno dato del maleducato, del provocatore, la tua panchina è sempre troppo agitata. Strategia?
«Se facciamo Uefa di qua e Italia di là, mi sento molto meglio quando parlo di Uefa e meno di Italia. In Italia mi sono sentito aggredito, hanno violato la mia libertà di uomo, la mia libertà di uomo di caldo, la mia libertà non di grande allenatore, perché in queste situazioni non ci sono grandi o piccoli allenatori., siamo tutti uomini. Qui non mi sento più a mio agio. Ho paura di ricevere altre squalifiche, ho paura di dover tornare a sentire tutto quello che ho ascoltato o letto in questi due anni. Se mi dici José, parliamo di Budapest, ci sto. Però se mi chiedi di parlare di Italia, di sconfitte politiche, di opinioni espresse dalla gente e anche di offese ricevute, la cosa mi disturba. Ho detto paura, forse paura è eccessivo, fastidio è meglio. Penso che, a livello istituzionale, avrebbero dovuto trattarmi diversamente, da uomo di grande esperienza internazionale, uno che ha allenato in Inghilterra, in Spagna».

È vero tuttavia che hai sempre avuto un rapporto conflittuale con la classe arbitrale.
«Ho detto di Chiffi le stesse cose che Modric ha detto di Orsato, esattamente le stesse. Sono innamorato di Modric, ma non sono d’accordo con lui quando dice che Orsato è un arbitro scarso. Orsato è bravissimo. Ho detto la mia su Chiffi e avete visto le conseguenze. Modric ha parlato dopo una semifinale del Mondiale ed è arrivato a miliardi di persone, io alla fine di Monza-Roma. Eco il pallone d’oro non ha subìto squalifiche, io la gogna. Se vuoi parliamo di Budapest, che è certamente meglio».

Le 4 giornate di Mourinho.
«Budapest, da un punto di vista umano, è stata una delle più belle esperienze della mia carriera, perché ho visto di tutto, cose bellissime, ho visto una processione di romanismo, ho visto gente che sicuramente non ha mangiato bene per qualche settimana pur di essere presente, ho visto un gruppo di giocatori solido, la gente che lavora vicino a noi a Trigoria, con una passione incredibile. Ho visto gente che inseguiva un sogno assolutamente fantastico e ha vissuto la tristezza della sconfitta. Bobby Robson mi ripeteva spesso che nel momento della tristezza devi pensare alla gioia di chi ha vinto. Ho seguito il suo consiglio, ho voluto stare vicino alla nostra gente e abbiamo rispettato la gioia dei tifosi del Siviglia, abbiamo salutato i nostri colleghi spagnoli, ci siamo comportati, dentro al campo, con una correttezza e un’umiltà eccezionali».

Ma poi sei sceso nel tunnel per dire qualcosa all’arbitro Taylor.
«Taylor non era lì, non c’era».

Come non era li?
«Taylor era rimasto dentro lo stadio e il giorno dopo l’hanno trovato all’aeroporto».

Scusa, ma a chi era rivolto il fuckin disgrace
«Cerano gli altri, non Taylor, c’erano il quarto uomo, gli assistenti, Rosetti e Howard Webb, il direttore tecnico degli arbitri della Premier, Taylor non c’era. Ti stavo dicendo che da un punto di vista umano è stata un’esperienza fantastica, eccezionale, anche perché, alla sesta finale, ho perso per la prima volta, conoscevo il latò bello della festa europea è non avevo mai vissuto il brutto. Per questo dico che da un punto di vista umano mi
ha in qualche modo arricchito».

Torniamo a Taylor.
«Te lo spiego dopo quello che è successo, la verità. Finisce la partita, io entro in campo entro con la mia famiglia e le famiglie dei giocatori, vedo tanta gente piangere, io non piango mai dopo una sconfitta… Assorbo tutte quelle emozioni. Torno perché voglio stare con i giocatori in quel momento di tristezza assoluta, e porto i giocatori dai tifosi e dai giocatori del Siviglia e a ricevere le medaglie, partecipiamo alla cerimonia, siamo impeccabili. In quei minuti ho sentito che dovevo essere il padre di famiglia, per questo ho detto al gruppo “resto con voi anche l’anno prossimo”. La reazione dei ragazzi è stata splendida, in quel momento è finito tutto».

Avevi pensato di andartene?
«No».

Mmmmh…
«Ho sempre fatto il mio lavoro senza pensare al dopo».

E poi hai ancora un anno di contratto.
«Sai bene come sono i contratti nel caldo. Finito tutto, rientriamo nello spogliatoio, scendiamo in garage e nel garage arriva il gruppo arbitrale. Con Webb ho un rapporto buono, come con Rosetti. Hanno entrambi arbitrato delle mie partite, Webb addirittura la finale di Champions con l’Inter a Madrid. So di non essere stato elegante, ma non ho insultato nessuno. “Fucking disgrace” è molto simile all’italiano “cazzo!”, un’esclamazione, uno sfogo, o al portoghese “foda pra caralho”. Sono andato da Rosetti e gli ho detto: “arbitro”, lo chiamo così, “arbitro, è rigore o non è rigore?”. Rosetti ha fatto quello che di solito fanno gli arbitri, non mi ha risposto. Ho ripetute la domanda a Webb, lui mi ha messo la mano sulla spalla e ha detto ‘José, sì, è rigore”. Webb ha fatto quello che mi sarebbe piaciuto avesse fatto Taylor. Perché se Taylor o qualcuno al posto suo, dopo la partita fosse venuto da noi, nello spogliatoio del pianto, e avesse detto “ho sbagliato, abbiamo sbagliato, mi dispiace”, non solo sarebbe finita li, ma lui avrebbe avuto il nostro rispetto. e la nostra ammirazione. Sbagliamo tutti, forse durante quella partita ho sbagliato anche io. Continuo a pensare una cosa: Taylor è bravo, per non dire molto bravo, positivo anche il rapporto ché ho avuto in Inghilterra, mi sembra un uomo perbene, io non ho mai messo in dubbio la sua onestà. L’unica cosa che dico e dirò sempre è che era rigore e con quel rigore li la Roma avrebbe potuto vincere. Prima di quel rigore la sua direzione non mi era piaciuta per niente, non mi erano piaciute le sue scelte tecniche, disciplinari, però continuo a pensare che sia un arbitro bravissimo e se la prossima stagione lo riavremo, nessun pro blema, sono sincero».

Ti hanno tolto tre quarti di coppa.
«Il giorno dopo è successo l’episodio dell’aeroporto, ma io non ho nulla a che vedere con quell’incidente. È stata la reazione di un gruppo di tifosi, io non c’entro affatto. Con mia grande sorpresa, due giorni dopo mi è arrivato un messaggio di un amico dell’Uefa in questi anni mi sono fatto amici ovunque, non solo nemici “Amico mio” mi ha scritto “tu sei un grande del calcio, però ti do un consiglio, censura pubblicamente il comportamento dei tifosi della Roma all’aeroporto, te lo dico perché ti sono amico”. La mia risposta è stata: se l’Uefa o Taylor chiedono scusa ai tifosi della Roma, io critico il comportamento all’aeroporto e chiedo scusa. Subito dopo sono andato al club e ho detto: da oggi e fino all’uscita della sanzione, che è già pronta, sarò io il focus di un arbitraggio triste e di un comportamento triste dei tifosi in aeroporto, oltre che del mio atteggiamento nel garage. Però adesso ho bisogno del vostro sostegno e di una comunicazione forte. Se mi chiedi quale sia stata in due anni e due mesi di Roma la cosa che mi ha fatto sentire più fragile, rispondo che non è stata la partenza di Mkhitaryan, aver perso un giocatore che mi piace tanto e aver giocato un anno e mezzo con solo 4 difensori centrali quando è normale averne 6. La cosa più triste è stata non essere appoggiato dalla società in una situazione del genere. Sconterò le 4 partite, non riesco a guardare l’Uefa in modo negativo, saranno 4 partite in cui mi sentirò un tifoso. Sarà dura per noi, sarà dura per me, dura per la squadra, per i miei assistenti e quello che stiamo cercando di fare principalmente è preparare i giocatori alla mia assenza per 6 partite. Rapetti, il preparatore atletico, è molto stimato e rispettato dai giocatori, ha una leadership naturale. Sappiamo che è una missione molto, molto, molto difficile. Se Budapest è stato un sogno, noi adesso ne coltiviamo un altro, Dublino, e affronteremo la competizione per arrivare fino a là».

L’assenza dei Friedkin: per molto tempo, mesi, non hai avuto contatti con la proprietà
«La proprietà è la proprietà. Ho sempre rispettato la proprietà e le persone, al di là del ruolo. Sento che da parte loro c’è rispetto e tanta stima per l’allenatore. Il profilo del rapporto lo stabilisce sempre la proprietà. In tutti questi anni ho sempre ripetuto che vengo chiamato e pagato bene per risolvere i problemi, non per crearli. È la proprietà che deve parlare di te e è la proprietà che deve parlare con te».

Stai per cominciare il campionato con un solo anno di contratto.
«Non cambia niente. Per qualche giorno ho pensato basta bambini, perché dovrei costruire dei bambini se il prossimo anno non sarò più qui? Però è subito subentrato il José bravo, il José buono, il José professionista e sorridente, positivo: prima di tutto lavoro per il club; secondo, per questo club è super impórtante creare determinati presupposti: come ab-biamo visto, sono stati proprio i bambini, in un momento difficilissimo per Pinto, a garantire i 30 milioni necessari per soddisfare un settlement agreement terribile. E, fattop iù importante ancora, che colpa hanno i bambini se ho un solo anno di contratto? Adesso ti dico che Pagano diventerà bravo, non voglio ancora dirlo di Pisilli, perché lo vedo più bambino, anche fisicamente, dovrà avere una grande evoluzione, però ha la testa giusta sempre, non solo adesso che stiamo lavorando insieme da un mese. Pagano sarà come Bove».

Torniamo al rapporto Tiago Pinto-Mourinho. Abbiamo scritto un sacco di cazzate?
«Sì».

Grazie, presenterò.
«Per prima cosa, siamo insieme praticamente ogni giorno. Come io e te adesso, lui da una parte del tavolo e io dall’altra».

Vi conoscevate anche prima di trovarvi alla Roma?
«No, no. Pinto lavorava in Portogallo quando io ero all’estero. Non c’eravamo mai incrociati. Il nostro è un rapporto di rispetto, anche formale. Io non gli do del tu, anche se lui potrebbe essere mio figlio, per me è il direttore».

Fermi al lei?
«Gli do del lei, del direttore, e mi restituisce il lei, per lui sono il mister Non siamo sempre d’accordo, questo no. Lui ha un rapporto più diretto e costante con la società, perché fa parte del suo lavoro. Per tornare a tantissimo tempo fa, quando Dzeko andò via, fu durissima da accettare, una disgrazia Tammy si è infortunato il 5 giugno, stiamo parlando di 63, 64 giorni e per me c’è un nome, ce n’è uno, perché io di solito sono molto obiettivo e pragmatico, ce n’è uno, ma non è possibile prenderlo, così mi è stato detto».

Morata.
«Ti dico solo che non è Mbappé».

Morata, su.
«Non è Mbappé, però penso sempre, anche quando non siamo d’accordo, che Pinto voglia le stesse cose che voglio io».

Sicuro?
«Sì, sono sicuro, sicuro. L’obiettivo comune è che la squadra ottenga il miglior risultato possibile».

Ho sentito che cambierai qualcosa tatticamente, si parla anche di partenza dal basso.
«Non sono invidioso, però ci sono allenatori – e sono stato uno di loro – che possono avere esattamente quello che desiderano, punto, non c’è storia. Io dico sempre, scherzando, que-sto è ilgiocatore che voglio io, però è troppo costoso. Un presidente mi rispose: di calcio capisci tu, di numeri io».

Era Moratti.
«No, Abramovic. Se questo è il giocatore che vuoi, questo è il giocatore che avrai, disse. Il giocatore era Michael Essien. Il Lione pretese una cifra immorale. Avevo dato anche altri nomi, il secondo, il terzo. Prese Essien. Questo per dire che quando godi di questo privilegio puoi decidere come giocare, puoi trovare una soluzione alternativa; puoi fare una serie di belle cose. Altrimenti ti devi adattare alla nuova realtà e cercare di fare cose che corrispondano alle caratteristiche dei giocatori. Non esiste altro modo. Se chiedi a un giocatore cose di cui non è capace, e alla squadra di andare oltre le proprie qualità tecniche, li metti in difficoltà e non riesci a trovare un equilibrio a livello di risultati»

Parlami di Dybala.
«Quando è arrivato il primo di agosto e la clausola non è stata più esercitabile, ho dormito meglio, lui è di livello altissimo e per noi è oro, non possiamo rinunciare a lui. Quando siamo costretti a farlo perché è infortunato o perché è stanco o è rientrato cotto dalla nazionale, sono guai seri. La sua qualità come giocatore non mi ha sorpreso per niente. È il bambino che mi ha colpito, io dico sempre che quelli bravi, bravi, bravi sono così: umili, rispettosi con i colleghi, io sono passato attraverso tante generazioni, perché alleno come assistente dal ’92 e anche da prima, dal ’91, e questo ragazzo non è dì questa generazione. È fantastico, ti dico io che è fantastico, la gente conosce il suo potenziale come giocatore, io posso dire che il potenziale come ragazzo non è per niente inferiore».

In estate hai ricevuto due offerte dall’Arabia.
«Al-Hilal e Al-Ahli».

Ci hai pensato?
«Sì. Prima di andare all’incontro ho informato la proprietà chiarendo che non avevo intenzione di accettare. A casa ho detto esattamente la stessa cosa. Per un lato mi sentivo prigioniero della parola data ai giocatori a Budapest e ai tifosi dopo lo Spezia, mimando la permanenza. Ma se mi chiedi se non ho accettato soltanto per questo motivo, rispondo di no, non solo per questo».

Un no definitivo?
«Non è definitivo, non lo è. In passato rifiutai la proposta più incredibile che un allenatore abbia mai ricevuto quando la Cina mi offrì la panchina della Nazionale e di un dub nel quale avrebbero giocato tutti i nazionali. Una proposta economica indecente, fuori dal mondo e da tutti i parametri».

In futuro ti vedi ancora in un top club?
«Io sono più bravo che mai. È così che si dice, giusto?».

Ancelotti mi rivelò che se l’avessero mandato via quest’anno, Fiorentino ti avrebbe ripreso certamente.
«Io ti dico, da ancelottiano e madridista, che spero rimanga a lungo ai Real».

Andando in Italia hai fatto guadagnare molto meno ai tuoi collaboratori, in primis a Nuno Santos.
«Nuno mi seguirebbe anche alla Boreale… Due cose possono far diventare meno bravo un allenatore. La prima, quando viene a mancare la motivazione; la seconda, quando si pensa di sapere già tutto. Quando ti nascondi dietro la tua storia, ritieni che il calcio non si sia evoluto e che i ragazzi di oggi siano uguali a quelli di vent’anni fa, e che le strutture di appoggio siano le stesse di allora, ecco, in quel momento diventi meno bravo, finito».

Quindi in questi due anni sei migliorato, cresciuto.
«Mi sento cresciuto, sì».

Dicono “Mourinho è solo un grande motivatore”. Riduttivo, no?
«Se dicono che è un grande motivatore, un grande tattico e un grande allenatore di campo, se dicono tutto questo, va benissimo. Quando ho iniziato, parlavo ovviamente portoghese, però ero stato a Barcellona e parlavo catalano, castigliano, francese perché l’avevo studiato da giovane, e inglese, non ancora italiano. In quegli anni l’allenatore non interagiva con i giovani, era un mondo completamente diverso, ‘Meno globale, non c’erano tanti allenatori stranieri all’estero, io parlavo 5 lingue e la gente diceva, ah questo qua è più un accademico che un allenatore. Vent’anni dopo imparare le lingue fa parte dei corsi per allenatori di alto livello. Mi hanno messo tante etichette».

Quanto è importante la tattica?
«È importante, ma i giocatori non devono essere schiavi della tattica, più bravi sono i giocatori e più sono liberi di esprimessi. Quando hai una squadra meno talentuosa il lavoro tat-tico deve aumentare, perché i giocatori devono imparare a risolvere i problemi. Io preferisco sempre parlare di strategia, che è una cosa diversa, di piano di gioco. La squadra in cui ho lavorato meno tatticamente è stato il Real Madrid: 100 punti, 34 vittorie, 2 pareggi e 2 sconfitte, 121 gol segnati e più 88 di differenza reti. Di Maria, Higuain, Benzema, Ronaldo, Xabi Alonso, Modric, Ózil. Lavoravo sulla disciplina e sui principi di gioco. Dove ho spinto di più sulla tattica è stato con il Porto e con la Roma».

Qual è l’allenatore, del presente o del passato, nel quale più ti rivedi?
«Amo l’allenatore di carriera, io stesso lo sono. Semi dicono che quel tale è bravissimo, rispondo “vedremo, speriamo, speriamo che lo diventi”. Però non mi dite che è bravo uno che allena da due anni o uno che ha anche ha vinto qualcosa nel primo, perché per me essere grande è avere una carriera e tanti titoli, non è allenare un anno o due e poi sparire. Ancelotti ha vinto la prima coppa internazionale nel 2003 l’ultima nel 2023, io la prima nel 2004 e l’ultima nel 2022, è una cosa straordinaria. Dopo diciotto, vent’anni, sempre primi. Carlo per me è un grandissimo. Il bravo di oggi io lo voglio rivedere domani».



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