Maurizio Sarri, Josè Mourinho

AS ROMA NEWS DERBY LAZIO MOURINHO SARRI – Il derby di domani è materia infiammabile, a cominciare dalle panchine. Due soggetti contro. Due soggetti estremi. Diversi che più non si può. L’intelligenza tutta estroversa e lavica del portoghese contro quella interiore, scontrosa e laica del toscano, scrive La Gazzetta dello Sport.

Prendi l’ultimo giovedì di coppa. Le cose vanno male all’Olimpico, la Roma è una tremula donzella sbatacchiata in lungo e in largo dai bulgariani (bulgari più brasiliani), arrivano i primi mugugni dei tifosi, non si sentivano chissà da quanto. José Mourinho prima incassa e smaltisce lo sconcerto, poi gli sale il ruggito, lo invade la rabbia. Nel secondo tempo è una furia fotonica, gli occhi da tigre sono una torcia puntata sul campo come un’arma di distruzione.

È la presa del judoka sul nemico, alias circostanze avverse. È lo sciamano che con la sola veemenza dello sguardo pretende di modificare gli eventi, la sconfitta, la testa dei suoi giocatori, possibilmente quella dell’arbitro e degli avversari. Trasformare il campo in un saloon, la partita di calcio in una sarabanda, un mucchio selvaggio dove i bastardi sono più utili dei campioni. Dove i campioni sono preferibilmente anche bastardi.

Ogni partita di Mourinho è un happening. Specie da quando sta alla Roma. José spende ogni volta tutto quello che ha e tutto quello che ha è il capitale umano, la disponibilità più emotiva che tecnica o tattica dei suoi giocatori a “morire” non per il suo calcio, ma per lui, lider maximo. Si diceva che Roma fosse il suo tramontante viale. Topica colossale. Roma, città dei gladiatori, è il suo habitat naturale. Mou ha trovato pane e circo per i suoi denti. I tifosi ai suoi piedi e, se li interroghi, nemmeno sanno bene il perché. Mou non è un allenatore è Cagliostro, un fenomeno da ipnosi collettiva. Le sue squadre stentano, balbettano, giocano male? Qualsiasi altro allenatore sarebbe (è stato) barbaramente lapidato. Lui no. Lui può. Lui ha lo straordinaria dote del pifferaio magico di Hamelin. La gente lo segue, e non importa se si è bambini o topi, se si va al Colosseo a esultare o ad affogare.

Maurizio Sarri spende tutto quello che ha e tutto quello che ha è il capitale del suo calcio. Il calcio è il suo gioco. La sua ossessione. La sua applicazione morbosa. Le geometrie palla a terra, i triangoli, come si esce negli spazi larghi e come si entra in quelli piccoli. Sono due allenatori di successo ma, in un gioco ipotetico di vite e di mondi paralleli, Mou sarebbe potuto essere tante altre cose, il leader carismatico e anche un po’ sanguinario di una setta, di un esercito di mercenari o di una gang, ma anche un formidabile imbonitore da piazza o l’eminenza grigia e un po’ sinistra di corte, a Versailles o a San Pietroburgo.

Sarri? Un monaco eremita in tonaca e sandali che pesta la polvere, si nutre di bacche e di visioni, ma anche un grigio e onesto bancario che consuma nel segreto della sua stanzetta le sue manie, un sarto o un serial killer che sezionano le loro stoffe o le loro vittime in tante geometriche figure, rombi e triangoli. Quello di Sarri è un calcio da guerriglia, lieve, intenso e letale, ama i piccoletti funambolici che agiscono rapidi e fanno male come un’orchestra di tupamaros.

Mourinho è per la guerra, stravede per la fisicità, i giganti omerici che vanno impavidi allo scontro. Ha trasformato Zaniolo in una specie di Sigfrido cui non basta vincere, vuole strappare il cuore dei nemici. Entra lui e la Roma diventa una banda metal, solo tamburi e suoni acidi. Mau enuncia pubblicamente il suo maestro, Arrigo Sacchi. E quelli che discendono da lui, a cominciare da Guardiola. Mou non lo enuncia perché non ritiene di averne uno. Esiste il “sarrismo” in quanto teoria decifrabile e riproducibile, non esiste il “mourinhismo“. Mourinho nasce e muore con lui.

La storia del José Mourinho allenatore potrebbe essere scandita dall’elenco dei titoli vinti ma, ancora di più, dalla successione dei “suoi” giocatori, i favoriti del suo harem. La sua sporca dozzina. Da Maniche del Porto, prima ripudiato e poi prediletto, a seguire. In ordine sparso. Drogba, Ibrahimovic, Azpilicueta, Terry, Lampard, Stankovic, Materazzi, Sneijder, Harry Kane e tanti altri ancora. Matic. ad esempio, se l’è portato anche alla Roma. Pellegrini e Mancini sono invece gli ultimi della lunga lista. “Ho lottato con i miei fratelli in campo”, ha detto Pellegrini giovedì sera. “Siamo fratelli“, “siamo una famiglia“. Mou plasma anche la lingua dei suoi adepti. Da Sarri, neanche sotto tortura, sentirete mai parlare della sua squadra o dei suoi tifosi come di “una famiglia”.

I fedelissimi di José danno l’anima per fare felice il loro profeta. Sono felici della sua felicità. Portano in sacrificio al suo altare la propria testa, prima ancora che quella del nemico. Mourinho sa come farsi amare e sa anche come farsi odiare. Sa entrare nella testa dei suoi giocatori, come un santo o come un demonio. A Sarri non gliene frega niente di farsi amare o odiare. Lui non sa entrare altro che nella propria testa. I suoi giocatori non vogliono la sua felicità, gli basta la propria. Sarri è felice, a modo suo ovviamente, quando riconosce i suoi calciatori felici come creature, meglio ancora ebbri, di giocare il suo calcio. Non ci si affeziona a Sarri, ma alle sue invenzioni di calcio.

José è un uomo di mondo, sa essere special ovunque, perché ovunque ripropone la sua legge, il suo verbo, la sua geniale dittatura. L’alternativa è chiara dal primo giorno: non puoi che essere con me o contro di me. Sarri si accorge a malapena del mondo che è fuori dal suo straccio di tuta e dalla sua ciminiera di fumo. Il mondo è il suo mondo. Tutto ciò che lo distrae è un fastidio. Prova ad adattarsi. Ci ha provato. Alla Juve e al Chelsea. Ma non ha funzionato. Ha provato a infilarsi giacca e cravatta, ma non era più lui. Alla corte degli Agnelli era un pesce fuor di tuta. La tuta è lo specchio della tua anima, la transizione felice in cui, direbbe il filosofo Jean Paul Sartre ma anche il sarto Valentino, l’essere e l’apparire sono la stessa cosa. La tuta è per lui come i mutandoni per Caterina de’ Medici e lo smoking per James Bond.

Mou adatta il suo sembiante. A Milano era molto chic e griffato, a Roma più casual e plebeo. Sarri ha bisogno di essere ovunque se stesso, brutto, sporco e cattivo. Di somigliare a uno spinone sempre un po’ torvo, incazzato e qualche volta blasfemo. Ha dichiarato anche in questo caso il suo maestro, Charles Bukowski. Fosse stato in doppiopetto e con la barba bella rasa non avrebbe mai dato del “finocchio” a Mancini.

Mou usa volentieri il sarcasmo. Ci sa fare. L’ultima, giovedì (“La Lazio è favorita per la Conference League, il problema è Tare a cui non piace questa coppa”). È un istrione nato. Sa fondere i suoi umori con la gestione teatrale degli stessi. Sarri è irreversibilmente verace. Napoletano per caso, toscano di adozione, ha la sanguigna inclinazione degli aretini, a partire dal gergo. Tra i due, un solo precedente degno di nota. Il Chelsea-Manchester United del 2018, 20 ottobre.

Sarri sulla panchina del Chelsea, Mou su quella dei Red. Rissa più che sfiorata. I londinesi pareggiano negli ultimi secondi di recupero e un assistente di Sarri va a mostrare il pugnetto in faccia a Mou, ancora tramortito dalla delusione. Mou se ne avvede e scatta come una pantera, vuole sbranare l’incauto. Parapiglia e scuse finali. Sarri, va detto, il più attivo nel promuovere la pace. A Roma, fino ad oggi, solo lievi scaramucce ma il sentore imminente delle botte da orbi. L’unico incidente romano, fin qui, collaterale e indiretto. Un sabotaggio notturno. Il fumo sputato dalla bocca eolica di Sarri, noto nicotine-addicted, che cancella la faccia da Casanova di Mou nel celebre murale testaccino di Harry Greb, lo street artist. Che sia l’antefatto di qualcosa di grosso? Magari domani?



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