(Gazzetta dello Sport – A. Schianchi) L’appuntamento era solenne, impossibile rinunciarvi. Ad attenderlo, glielo avevano preannunciato, «una folla oceanica» che aveva riempito il Teatro Argentina di Roma e, fuori, la gente che premeva, fin dalle prime ore del mattino, perché non voleva perdersi lo spettacolo. Pur tenendo moltissimo all’evento per il quale aveva steso un lungo e appassionato discorso, e pur conoscendo l’importanza politica che le sue parole avrebbero avuto sul popolo italiano, Benito Mussolini avrebbe volentieri cambiato programma. Anziché recarsi alle Celebrazioni della Battaglia del Grano, anche se non sarebbe stato opportuno o, come si dice adesso, politicamente corretto, il Duce avrebbe desiderato essere da un’altra parte. Allo Stadio della Rondinella, per la precisione. Dove si disputava il primo derby tra la Società Sportiva Lazio e l’Associazione Sportiva Roma. E, di sicuro, alla faccia di chi avrebbe preteso un atteggiamento super partes, non avrebbe nascosto la sua simpatia per i neonati «giallorossi», visto che proprio il Partito Nazionale Fascista era stato il padre della nuova creatura, nell’intento di dare alla capitale una squadra forte e valorosa, come la retorica del regime imponeva, che potesse sfidare le grandi società del nord. Per inciso La Battaglia del Grano fu lanciata nel 1925 allo scopo di perseguire l’autosufficienza produttiva di frumento dell’Italia. La campagna ebbe successo nell’ottenere l’aumento della produzione di grano e nella conseguente diminuzione del disavanzo della bilancia commerciale, ma andò a scapito di altre colture, specialmente di quelle basilari per la zootecnia.

PROGETTO Tornando al calcio e a quel primo derby, la volontà di Mussolini, che diede l’incarico di sovrintendere all’impresa al Federale Foschi, era quella di fondere tutti i club di Roma, quindi di inglobare anche la Lazio nella nuova società. Non vi riuscì perché si mise di traverso il generale Vaccaro, storico sostenitore laziale che, intuendo il pericolo di essere cancellato, evitò la fusione. Questa diatriba tra Lazio e Roma accese oltre misura i sentimenti dei tifosi, tanto che il primo derby rischiò di essere annullato: si temevano gravi disordini che, inevitabilmente, dallo stadio si sarebbero spostati nelle strade e nelle piazze. Mussolini, tuttavia, pretese che la partita fosse disputata e chiese il massimo impegno delle forze dell’ordine affinché la situazione fosse sotto controllo: non ci dovevano essere incidenti e, se anche ci fossero stati, li si doveva nascondere nelle «brevi di cronaca» del giorno successivo. Altissima era l’attenzione alla propaganda e all’informazione, perché da quella nasceva il consenso della gente.

AVANSCOPERTA Domenica 8 dicembre 1929, le cronache raccontano di un freddo particolarmente pungente. In tribuna, allo Stadio della Rondinella, gli uomini si mostravano avvolti da pesanti cappotti scuri e le donne esibivano vistose pellicce. C’era tutto il bel mondo in camicia nera, seduto in attesa dell’ingresso delle squadre. L’allenatore della Lazio, Piselli, aveva raccomandato ai suoi ragazzi di tenere alto il ritmo della sfida, voleva giocarsela sul piano fisico. Quello della Roma, l’inglese Burgess, costretto a rinunciare per infortunio al giocatore di maggior talento, Fulvio Bernardini, si limitò a predisporre le marcature sugli attaccanti e sui centrocampisti avversari e, data anche la difficoltà di comunicazione a causa della lingua, non aggiunse altro. Al resto, cioè a scaldare quel pomeriggio di dicembre, pensò il pubblico. Lo stadio straboccava di gente: 15 mila spettatori, tutto esaurito, nonostante i prezzi dei biglietti fossero stati abilmente aumentati durante l’ultima settimana secondo un vezzo tutto italiano. Seduti nei posti d’onore, in prima fila, il sottosegretario Leandro Arpinati, amico del Duce che aveva promosso una profonda riforma nel calcio italiano e, soprattutto, aveva voluto il campionato «a girone unico»; e poi il ministro Bottai; il presidente della Camera Giuriati; gerarchini e gerarchetti in ordine sparso; e, perfettamente allineati e scortati dagli occhi vigili dei carabinieri, i figli di Mussolini: Edda, Vittorio e Bruno. Il Duce li aveva spediti in avanscoperta. Non potendo assistere in prima persona al derby, e volendo comunque ottenere informazioni sull’evento che non fossero filtrate dai soliti leccapiedi, pensò che i suoi figli potessero svolgere al meglio il compito. La sera, nel salotto di Villa Torlonia, gli avrebbero raccontato che cosa era successo.

COGNOME Mussolini ottenne le consuete ovazioni al Teatro Argentina, dove si rivolse ai «camerati agricoltori», mentre i suoi figli si divertirono come matti ad assistere alla sfida tra Lazio e Roma. Al padre, tornati dallo stadio, dissero che era stata una partita magnifica e che aveva vinto la Roma: 1-0. Il gol lo aveva realizzato Rodolfo Volk, un ragazzo di Fiume che faceva il centravanti e, quando veniva intervistato, ai giornalisti ripeteva: «Io non penso, tiro». Il regime, l’anno dopo, trasformò quel cognome in «Folchi», ma tutti i tifosi giallorossi lo chiamavano «Sciabbolone» in aperto contrasto con l’appellativo «Sciaboletta» con il quale ci si riferiva al Re Vittorio Emanuele III. Il Duce si rallegrò del successo della Roma, convinto di aver puntato sul cavallo giusto quando aveva promosso l’iniziativa della fusione. E magari, al prossimo derby, sulle tribune si sarebbe fatto vedere pure lui: il calcio era un perfetto strumento di controllo delle masse.



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